Consonno o il paese dei balocchi fantasma

/ 02.05.2017
di Oliver Scharpf

È più di un’ora che arranco su per uno stradone asfaltato in mezzo al verde in provincia di Lecco. Un cartello in aria come negli arrivi di montagna del giro d’Italia, ma di ferro e tutto arrugginito, a caratteri maiuscoli in rilievo, dice: Consonno è il paese più piccolo ma più bello del mondo (ne parla anche Claudio Visentin a p. 13 di questo numero, ndr). Sorto nel 1402 e raso al suolo nel 1962 dalle ruspe di Mario Bagno (1901-1995): imprenditore edile di Vercelli e sedicente conte di Valle dell’Olmo accecato da un sogno delirante tipo Las Vegas. A Consonno è sempre festa si legge poi a fatica alla fine di un tornante. La vista si apre e laggiù si vede l’andamento goffo dell’Adda. La cartellonistica smargiassa andata in malora continua comunicando ancora, a stento: Chi vive a Consonno campa di più. Odore forte di pini silvestri piantati ad arte genere prologhi dei villaggi turistici ed eccolo, lassù, come una fatamorgana, il minareto: emblema rimasto del paese dei balocchi fantasma. Sempre con il naso all’insù si decifra l’ultimo proclama megalomane del conte Bagno: Qui a Consonno tutto è meraviglioso.

Su in cima, in fondo allo stradone, si scorge il coro della chiesetta seicentesca, unica superstite del borgo medievale venduto dalle famiglie Anghileri e Verga al conte Bagno per ventidue milioni e mezzo di vecchie lire. Il filare di negozi in stile arabeggiante, ai piedi del minareto turchino con cupola di cemento accanto, è sventrato e assalito dalla vegetazione fuori controllo. Graffiti ovunque, alcuni neanche male. Se nel 1976 una frana scende sulla strada tagliando fuori dal mondo l’improbabile Las Vegas brianzola già un po’ disertata, il colpo di grazia è opera dei rovinosi rave anni duemila.

Gironzolo tra le macerie ludiche. Ecco la pagoda cinese mezza divelta, ispiratrice del titolo del polemico reportage di Camilla Cederna uscito sull’«Espresso» agli albori di quello che all’epoca era chiamato Centro Turistico Internazionale: Una pagoda per Don Lisander, settembre 1968. A quei tempi, qui accanto alla pagoda, zampillava la fontana-arcobaleno; lo sfondo prediletto dalle spose, pare, per farsi fotografare nelle pause sigaretta dei pranzi nuziali al salone delle feste dell’hotel Plaza. Dove hanno cantato Mina, Celentano, Patty Pravo, I Dik Dik, I Camaleonti. L’hotel Plaza è ancora in piedi, ma l’unica nota gioviale è un glicine. Per anni, finita la festa a Consonnoland, è stata casa di riposo.

All’orizzonte, sulla strada deserta da western, un uomo claudicante avanza e svolta a destra. In fondo a quella stradina c’è ancora la casa prefabbricata dove il conte Amen, come è stato ribattezzato dagli abitanti defraudati di Consonno, aveva sistemato quest’ultimi al pari di profughi a casa loro. Lì in un angolo c’è ancora l’impianto di betonaggio in rovina dell’Impresa Bagno. Infatti il progetto di questo Fitzcarraldo della domenica, è rimasto incompiuto. Come ha dichiarato laggiù, contro il parapetto del belvedere in compagnia del suo barboncino, alle cineprese della Tsi, aveva in mente un campo da calcio, da tennis, «palla a canestro», minigolf, bocce, pattinaggio, luna park e «un grande zoo con bestie da parco-giardino e un ristorante popolare con orchestrine curiose». E soprattutto un inverosimile circuito automobilistico, indicando come luogo il monte spianato a suon di dinamite per ammirare meglio il manzoniano Resegone. Va citato anche il campo per il fantomatico tombarello, definito dal vaneggiante conte «uno sport che si svolgerà in declino».

Non c’è traccia del cannone e delle sfingi comprate in saldo nei magazzini di Cinecittà che facevano capolino nei riquadri delle cartoline con cari saluti da Consonno (634 m). Sparito anche il tragicomico ponte medievaleggiante all’entrata, dove due guardie in costume da gladiatore romano facevano su e giù. Una piazzetta vicino alla chiesa sembra scampata un po’ al declino di Bagnopoli, la fontana è vuota, ma ci sono diverse panchine. Mi siedo per un picnic frugale: panini con la bresaola e acqua frizzante. L’oro-logio del campanile della chiesetta di San Maurizio segna a vita l’ora del tè. A fianco c’è un’altra traccia non sepolta dell’ex frazione svenduta e svanita di Olginate: la canonica scalcinata con il tetto di coppi tremolanti e sconnessi che quasi rivaleggiano in bellezza con un Klee. Cinguettii, boschi di castagni intorno, un bastardino che fa la guardia al divertimentificio abbandonato.

La scarpinata è valsa la pena per questo sprazzo d’irrealtà vera in cima a un colle. Ora si riconosce il cucù che mi ricorda sempre la prozia Ilda quando mi cantava «cucù cucù, l’aprile non c’è più, è ritornato il maggio al canto del cucù». Una ginestra rallegra lo sfacelo dei divertimenti, lo stemma nobiliare inventato di sana pianta è ancora ben visibile sul lastricato. Un paese distrutto per far posto persino a un campo impossibile di tombarello eccetera, è abbastanza tragico, d’accordo, eppure quella specie d’insensato minareto ornamentale che svetta là, è una meraviglia.