Inquinamento e riscaldamento globale sono ormai questioni, realtà con le quali ci confrontiamo quotidianamente quando guidiamo l’auto, apriamo e buttiamo il sacchetto di plastica dell’insalata, cerchiamo di essere precisi nel fare la differenziata, non è sempre facile, mi capita spesso di rimanere impalata di fronte ai miei tre contenitori con una confezione in mano prima di ricordarmi se va a destra, a sinistra o al centro... Sempre nel dubbio se basti per fare la differenza in un mondo, ma soprattutto in una società, che sempre di più mostra i suoi limiti. Non so voi cari lettori, io provo una certa ansia quando leggo dell’isola di plastica di 1,6 milioni di km quadrati, grande insomma tre volte la Francia, che galleggia al largo delle coste delle Hawaii. È come se qualcuno ci mettesse davanti uno specchio per dirci: «così non va».
E se l’isola di plastica rappresenta in modo chiaro e palpabile le conseguenze di un modello di vita umano non sostenibile che portiamo avanti da decenni nell’illusione che la terra sia infinitamente capiente, estesa e ricca, ci sono forme e cause di inquinamento che sfuggono all’occhio e alla percezione ma sono altrettanto importanti e pericolose. Tanto più in una società sempre più definita e plasmata dalle connessioni. Parlo dell’inquinamento digitale, quello che ognuno di noi produce usando internet via cellulare, tablet o pc. Sapete, ad esempio, che una ricerca su Google equivale a 5-7 grammi di CO2 e un’email è pari a 20 grammi di CO2? Dunque se ogni giorno, per un anno, inviamo 30 mail produciamo la stessa quantità di CO2 di un auto che percorre 1000 km, se poi aggiungiamo altre attività come il download di serie e video la quota sale velocemente. Internet produce tanto CO2 quanto il traffico aereo globale e cioè il 2% dell’effetto serra mondiale. E se fosse un paese, per i livelli di consumo di elettricità che comporta sarebbe il quinto maggiore consumatore a livello mondiale dietro a paesi come Stati Uniti e Cina.
Sbagliamo quando pensando a internet ci immaginiamo una serie di connessioni fluttuanti nelle quali siamo immersi. In verità internet scorre sotto i nostri piedi, anzi, 20’000 leghe sotto i mari direbbe Jules Verne. I grandi colossi digitali investono sempre di più in cavi marini e fibra ottica sul fondo del mare, proprio in queste settimane sta per essere ultimata la posa di un cavo di 13’000 km che connetterà Hong Kong a Los Angeles. A cosa servono i cavi sottomarini? Trasportano le informazioni ai data center che custodiscono tutti i nostri dati, lavorano senza sosta e devono essere costantemente alimentati.
La più grande concentrazione di data center si trova in Virginia e ottiene un terzo dell’elettricità da energia nucleare, un terzo da carbone e solo l’uno per cento da energie rinnovabili. Fortunatamente, tra i giganti digitali e il settore IT, si sta facendo largo una sempre maggiore consapevolezza dell’urgenza di puntare sulle energie rinnovabili. Per molti però, come dimostra l’ultimo rapporto di Greenpeace Clicking Clean: chi vince la gara per costruire una Rete verde?, la meta è ancora lontana. Nella classifica, tra le aziende peggiori, troviamo Netflix, che per il 26% utilizza energia nucleare e per il 30% carbone, Twitter, che utilizza per il 14% energia nucleare, per il 21% carbone e Amazon, che usa per il 26% energie nucleari e per il 30% carbone.
Le aziende green sono Google, alimentata per il 56% da energie rinnovabili, Facebook per il 67% e Apple per l’83%. Non solo: per raffreddare i propri data center Facebook ne ha costruito uno a 100 km dal Polo Nord, Google uno in Finlandia nella cittadina di Hamina. È un progetto particolarmente interessante perché è stato realizzato convertendo un vecchio mulino a vento che un tempo serviva da cartiera. Grazie al suo sistema di raffreddamento high tech che utilizza l’acqua di mare della baia finlandese e riduce i consumi di energia, si tratta di uno dei più efficienti e avanzati data center sul mercato.