Con il selfie tutti fotografi: ma come?

/ 22.04.2019
di Luciana Caglio

«Ero un fotografo ed ero utile»: queste parole, pronunciate da Larry Fink, ospite d’onore al Festival Fotografia Europea, in corso a Reggio Emilia, sembrano rispondere nel modo più diretto ed essenziale a un interrogativo, ormai ricorrente, nell’era del fai da te. Confermano proprio la necessità di attribuire ai nostri gesti uno scopo, una ragion d’essere, una giustificazione materiale o morale che sia. Per Fink, è stata «una curiosità a briglie sciolte», a sollecitare un bisogno di testimoniare la realtà contemporanea, anche nelle pieghe più nascoste, e sempre tramite l’apparecchio fotografico. Nel suo caso, doveva nascere quella sorta di complicità fra utente e strumento, che rimane il segreto del successo professionale. La penna, la matita, lo scalpello, il bisturi, la zappa, il computer possono aiutare, o tradire: dipende da una mano e da una mente. Ma, adesso, è un rapporto che sta cambiando connotati. Per dirla con Fink: «La gente, con il telefonino in mano, si sente esonerata dal compito di scegliere un soggetto, di valutarne i contenuti, di registrarne gli aspetti sotto luci e da angolazioni diverse». E cita, in proposito, un’esperienza personale, e del resto condivisa da tutti noi: in Piazza Navona, si è trovato in una folla di turisti che «Anziché, contemplare lo splendore della fontana del Bernini, guardavano se stessi inquadrati su uno sfondo culturale».

Da anziano, Fink classe 1941, tiene però a ribadirlo, non intende condannare la tecnologia in sé, magari in nome di nostalgie bucoliche che vanno persino di moda, si tratta di denunciarne gli effetti deleteri, che partono da un equivoco: una sostituzione di ruoli. Cresce il numero delle attività, sottratte alla persona, e delegate a mezzi sempre più performanti che agevolano il lavoro, creando l’illusione della facilità e quindi del successo. Paradossalmente, la minaccia incombe in particolare su mestieri cosiddetti creativi: tutti fotografi, tutti giornalisti, reporter, poeti, e via enumerando ambiti in cui i mezzi elettronici aprono e spianano la via. Anche se, in definitiva, l’inganno viene alla luce. Editoriali, tesi di laurea, persino discorsi politici, scopiazzati da Wikipedia, sono, ormai, incidenti frequenti. Un tempo, un nostro brillante collega saccheggiava disinvoltamente gli scritti di Montanelli.

Sta di fatto che, oggi la diffusione del selfie ha svilito il significato, i contenuti, l’estetica della fotografia rendendo qualsiasi luogo o situazione meritevole di un’immagine: un ponticello, una piscina, un tramonto, un piatto al ristorante, insomma tutto, purché vi compaia anche l’autore dello scatto. Ed è a questo punto che un’abitudine, di chiaro tipo turistico o mondano, può rivelare una tendenza che va oltre spostandosi sul piano delle manie e delle derive caratteriali. Dal «selfie» al «selfish»: fra i due termini inglesi si è stabilita una correlazione, oggetto di allarme e di ricerche nell’ambito psicologico e sociologico. Fotografarsi in continuità non è un tic innocente. Rischia di contribuire a coltivare quella compiacente attenzione su se stessi che caratterizza il narciso. Un comportamento diffuso tanto da diventare fenomeno, tale da provocare situazioni di disagio che chiedono appropriati interventi. Un paio di settimane fa, sul domenicale di Tamedia «SonntagsZeitung» si denunciavano le conseguenze di questo culto di sé sulle persone vicine, in particolare il partner nella coppia. Insomma, il narciso non è soltanto uno che se la tira e magari si rende antipatico. Il guaio è che crea vittime. Costrette a ricorrere all’intervento di appositi gruppi d’autodifesa.

Infine, parlando dei rischi, provocati dalle immagini, le tante, le troppe immagini che ci circondano, in una sorta di assedio, è inevitabile pensare alla recente campagna elettorale per le cantonali. Le stesse facce, per mesi e mesi, su teleschermi, manifesti stradali, volantini, santini e via enumerando un eccesso che mette alla prova loro, i protagonisti, e noi, il pubblico. La parola conclusiva lasciamola a Gillo Dorfles: «Dopo la sollecitazione primaria, il messaggio provoca stanchezza, saturazione, finisce per consumarsi».