Dimmi dove vai e ti dirò chi sei. Nella sua banalità, da quiz televisivo, l’interrogativo è invece pertinente e rivelatore. In un’epoca che ha favorito, persino imposto la mobilità, conoscere le necessità e i gusti dei viaggiatori è un’esigenza vitale per gli addetti ai lavori dell’industria turistica in ripresa, dopo la pausa covid. Smentito l’illusorio buonismo del «non saremo più come prima», cioè liberati dall’ossessione viaggi. Insomma, quando, come e dove trascorreranno vacanze e weekend i nomadi contemporanei rimangono temi attuali. L’astinenza forzata non è servita da lezione, come ragionevolmente ci si poteva aspettare. Del resto, sono rimasti lettera morta i richiami alla saggezza lanciati da antropologi e filosofi, quali Jean-Didier Urbain e Duccio Canestrini, impegnati nella denuncia dell’irragionevole andare per andare.
Ora proprio la parola ragionevole sembra estranea in un ambito in cui è questione, innanzi tutto, di sentimenti. Sia chiaro, il vocabolo non va inteso in termini negativi, definisce la reazione che scatta spontaneamente incontrando persone, muovendosi in città, paesaggi diversi o assistendo a fenomeni naturali insoliti. Ed è così che nascono le predilezioni per determinati luoghi: quelli del cuore. E come ogni innamoramento, esposti al rischio dell’infedeltà. Cioè all’impatto di nuove mode. Ultima della serie, il soggiorno di tipo salutista in un ambiente cosiddetto naturale che propone diete esotiche e tecniche di ricarica spirituale. Mentre, in altri casi, si offre la possibilità di cimentarsi in imprese rischiose in luoghi impervi.
Al di là di queste frange alternative, la stragrande maggioranza dei viaggiatori continua a rispettare la tradizione, scegliendo destinazioni risapute: le grandi capitali, le città d’arte, i siti archeologici, i musei progettati dalle archistar. E via enumerando mete che appartengono al nostro bagaglio educativo e culturale, valori acquisiti e intoccabili. Rivive, in forma popolare e velocizzata, l’esperienza del Grand Tour che, nel XVIII e nel XIX secolo spettava ai rampolli della nobiltà inglese.
Nell’era del turismo facilitato per tutti, permane, tuttavia, un’incognita che sembra inspiegabile. Concerne le predilezioni o le antipatie nei confronti di località, paesaggi, monumenti storici. Tanto da creare veri e propri gruppi di sostenitori e oppositori. «E tu di che capitale sei?»: la domanda è diventata un gioco, dagli effetti rilevanti per l’industria turistica. La città «in» del momento è Berlino, preferita dai giovani. Purtroppo, gli avvenimenti, di cui siamo sconcertati testimoni, ha portato alla ribalta Kiev. E mi sia concesso, in proposito, un ricordo, personale. Che risale a mezzo secolo fa.
Nell’ottobre 1986, partecipai, con un gruppo di turisti svizzeri, a un viaggio in URSS che partiva, appunto, da Kiev, capitale dell’Ucraina, allora sovietica, e, in pari tempo, capitale della Chiesa ortodossa, di cui portava l’impronta. La cupola dorata della cattedrale di Santa Sofia ne era l’emblema. Altri simboli, le catacombe, visitabili alla stregua di curiosità turistiche, che sarebbero diventate rifugi, durante i bombardamenti. Rispetto ad altre città russe, Kiev sembrava un’isola a sé stante. Faceva sentire a proprio agio, per la bellezza dei monumenti, e per un’inattesa piacevolezza, che invitava a quattro passi in libertà. Incuriosita, entro in un supermercato, e guarda caso, l’altoparlante diffonde una canzone italiana. «Celentano», commento a voce alta. Un distinto signore, puntando l’indice ammonitore mi corregge: «No, Toto Cutugno». L’episodio, in apparenza modesto, confermava una normalità, chissà se recuperabile. Non mi stanco di raccontarlo, come fosse una mia esperienza esclusiva. Invece segno dei tempi, il tassista che mi porta a casa, è reduce da Odessa e la parrucchiera partirà per il Mar Rosso, guerra permettendo.
Intanto alle nostre latitudini, ci attende la prova profughi.