Gli inglesi non dovevano nemmeno farle, queste elezioni europee di fine maggio, non volevano farle, dovevano già essere fuori dall’Ue, o dentro per sempre al limite, ma non così, come si presentano oggi, con un accordo zombie sulla Brexit già bocciato più volte ai Comuni, una premier che ha detto che se ne va (non si sa quando) e l’indecisione trasformata in strategia politica, naturalmente fallace. I sondaggi in vista di questa elezione – con un passaggio elettorale previsto per il 2 maggio, con alcuni voti locali – riassumono il cortocircuito britannico in proiezioni da panico quasi comico (anche se abbiamo smesso di ridere, quando si tratta di Regno Unito): il neonato Brexit Party, animato da Nigel Farage, ex leader degli indipendentisti dell’Ukip e falchissimo della Brexit, è al primo posto.
S’è mangiato anche il suo primo figliolo, Farage, lo ha tagliato a metà: del 13 per cento previsto per l’Ukip è rimasto il 6 per cento di consensi (i dati sono dell’istituto YouGov) e il Brexit Party s’è ingrossato fino al 23 per cento, davanti ai laburisti al 22 e ai Tory al 17. Farage raccoglie testimonial e voti, vuole bissare il successo del 2014 – l’Ukip per la prima volta, alle europee di quell’anno, fu il primo partito in un’elezione nazionale – e sbattere in faccia al Regno e all’Europa la sua verità: vogliamo la Brexit, la vogliamo fortissimo e la vogliamo durissima, chi cambia idea è, ancora una volta, minoranza.
Farage approfitta di una coerenza ferrea (ancorché fantasiosa) e delle solite divisioni degli altri, degli avversari, che faticano a unire le forze, come già accaduto in questi tormentati anni di negoziati sulla Brexit. Il neopartito Change Uk, che è il nome scelto dall’Independent Group, il movimento di fuoriusciti dal Labour e dai Tory che si sono raggruppati in funzione anti Brexit, non riesce a federare tutti i partiti «remainers», anzi: non è riuscito nemmeno a farsi approvare il logo elettorale. La campagna – improvvisata, sbilanciata, da inventarsi su due piedi – deve ancora iniziare, e tutto può accadere nel Regno dell’indecisione e del tormento, ma oggi Change Uk sta all’8 per cento, i Lib-dems europeisti al 9, i Verdi che godono del momentum ambientalista globale al 10.
La somma fa 27, che non sarebbe male se davvero si potesse parlare di un gruppo unito e se il Labour di Jeremy Corbyn potesse essere considerato un partito «remainer». Non si sa quale sia la strategia di Corbyn, e se la compagine europea dei socialdemocratici respira all’idea che il Labour partecipi alle europee, il sollievo non si sente affatto in Inghilterra. Chissà che cosa vuole Corbyn, oltre diventare primo ministro s’intende: ancora non si è capito.
La presenza degli inglesi alle europee infastidisce anche molti paesi dell’Ue. Gli europarlamentari avevano votato l’anno scorso per abolire 46 dei 73 seggi occupati dagli inglesi e redistribuire i 27 seggi ad altri Stati: Francia e Spagna avrebbero ottenuto cinque seggi ciascuno, l’Italia e l’Olanda tre. Ma ora la redistribuzione è sospesa, non si sa per quanto tempo, e la presenza del Regno Unito non fa litigare soltanto sugli uffici degli europarlamentari – si pensava di stare più larghi, al palazzo dell’Europarlamento – ma cambia anche gli equilibri europei: con il Brexit Party, le compagini euroscettiche supererebbero il 25 per cento, mentre i due partiti principali, i conservatori del Ppe e il Pse perdono il dieci per cento in tutto, cinque ciascuno (le proiezioni sono state pubblicate dal Parlamento europeo).
Il fronte europeista è sempre maggioranza, ma si deve sommare anche l’Alde, la compagine liberale, perché le due grandi e storiche famiglie dell’Ue da sole non camminano più, hanno bisogno della stampella centrista, cui si potrebbe aggiungere anche il partito di Emmanuel Macron in Francia. Così ci ritroviamo con due contraddizioni: una è storica, cioè la conoscevamo già, ed è quella che prevede che alle elezioni dell’Ue vadano forte i partiti che detestano l’Ue, che significa che i contribuenti europei pagano viaggi e vitalizi a europarlamentari che butterebbero nella spazzatura la parte «euro» del loro lavoro. La seconda contraddizione è tutta nuova: s’è combattuto contro la Brexit in nome di un’Europa unita e ora i britannici che restano nell’Ue obtorto collo renderanno ancora più frammentata e ingovernabile e disunita l’Ue. Ironia assoluta, ma come dicevamo: con gli inglesi ormai c’è poco da ridere.