Cominciamo dalle piccole cose

/ 09.01.2023
di Alessandro Zanoli

Esiste ancora qualcuno che apre gli occhi sul nuovo anno esprimendo dei buoni propositi? Chi scrive vorrebbe avanzare qui una sua modesta proposta, nel caso ci si trovasse a corto di idee. In una delle varie serate di festa passate in compagnia di amici e parenti, ci è capitato di essere seduti a capo di una lunga tavolata, proprio a fianco di un giovanissimo famigliare. Come da tradizione, sono proprio i più piccoli a essere un po’ messi in disparte in queste occasioni: verso la fine della mangiata conviviale i grandi si chiudono nel loro mondo di chiacchiere e i piccoli devono arrangiarsi per sopravvivere alla noia. Il ragazzino in questione, come molti suoi coetanei, risolveva il problema con lo smartphone del padre. A chi scrive è capitato quindi per la prima volta di vedere da vicino le abitudini di navigazione di un undicenne annoiato.

Vi è già successo? Se siete genitori probabilmente sì. Per chi scrive, genitore ormai pensionato, la cosa è stata abbastanza spaventosa. Si trattava di una normalissima sessione su TikTok: il pollice del ragazzino faceva scorrere il rotolo verticale dei contributi postati sul social. Video velocissimi, di per sé stessi, sfogliati alla velocità di due o tre al secondo. I momenti in cui l’attenzione del bambino si fermava su un filmetto appena un poco più simpatico degli altri erano abbastanza rari. Lo «sfogliamento veloce» era imperterrito e meccanico, ed è durato, diciamo, oltre venti minuti. Con un calcolo molto approssimativo saranno passati davanti agli occhi del piccolo navigatore attorno ai 2000 video. Avete idea di quanti sono? L’insieme costituisce una sorta di film allucinatorio e turbinoso senza capo né coda, alla ricerca della pura emozione immediata. Di nuovo, non ci si stupisce più nel notare come questa scansione di fotogrammi indiavolati sia molto simile a quella dei programmi TV con cartoni animati per bambini, caratterizzati da un montaggio caleidoscopico e furibondo, in cui un’inquadratura non dura mai più di due-tre secondi. I nostri piccoli sembrano abituati a un frame rate molto alto.

Questa scena ci è tornata in mente leggendo negli scorsi giorni un articolo pubblicato su «Repubblica», in cui si commentavano i risultati di uno studio compiuto da una commissione del Senato italiano, quella di Istruzione pubblica e Beni culturali, ricerca volta ad analizzare «l’impatto degli strumenti digitali sugli studenti». I risultati della ricerca, compiuta sull’arco di due anni tra il 2019 e il 2021 sono abbastanza spaventosi. Pur considerando che comprende nel suo arco temporale di analisi il periodo fortemente digitalizzato del lockdown epidemico, il quadro che dipinge sugli effetti che l’uso dei media elettronici producono sulla mente e il fisico dei nostri ragazzi sarebbe davvero grave. Evito, di proposito, di entrare nel dettaglio. L’unico accenno riassuntivo che ne riporto è che, dal punto di vista neurologico e psicologico, sui bambini i sintomi della dipendenza da smartphone somigliano molto a quelli dati, sugli adulti, dalla cocaina.

Detto ciò, vorrei che il proposito per l’anno nuovo si concentrasse proprio su questo tema. Le buone pratiche che, al termine dello studio italiano, i professionisti dell’educazione vogliono sollecitare è una maggiore attenzione dei genitori alle abitudini dei loro figli. Una conclusione banale, ripetuta da anni, ma che sembra non si riesca sempre a implementare. Siamo proprio noi, infatti, a non avere ben chiara la misura della complessità della questione, probabilmente perché siamo anche i primi a soffrire della dipendenza da periferiche digitali e, per questo, portati a sottostimarne l’impatto. Occorre invece prenderne coscienza, senza falsi moralismi ma con pragmatica disponibilità. Alla prossima riunione di famiglia, non dimentichiamo di portare con noi un bell’album da disegno e dei colori, una piccola scatola di costruzioni, un paio di macchinine, qualche bel libro illustrato. Il nuovo problema si risolve forse alla vecchia maniera. Si tratta davvero di esercitare un poco di resistenza verso la «pigrizia digitale», un annesso non previsto della «rivoluzione» a cui siamo esposti da tempo e dalla quale non abbiamo ancora imparato a difenderci.