Come voglio io: fino all’ultimo traguardo

/ 06.03.2017
di Luciana Caglio

S’incrociano, nelle cronache, notizie di segno opposto, specchio delle nostre contraddizioni. È successo, con un’evidenza addirittura emblematica, negli scorsi giorni, quando i media ci hanno raccontato la storia di Fabo, il dj Fabiano Antoniani, vittima dapprima di un incidente stradale che l’aveva reso cieco e tetraplegico, e poi vittima delle lacune giuridiche italiane. Per liberarsi da un’infermità e da una sofferenza per lui insopportabili, aveva chiesto di poter morire. Scelta impossibile in Italia. E, quindi, anche Fabo si è rivolto alla Svizzera, dove, com’è risaputo, il fin di vita per così dire agevolato, rappresenta un’opzione praticabile: in forme diverse, sia evitando un accanimento terapeutico, ormai inefficace, sia ricorrendo a interventi attivi e mirati a sopprimere un’esistenza ritenuta insensata e persino non dignitosa, un compito, quest’ultimo, affidato a veri e propri specialisti.

Si è aperto così un ambito in continuo sviluppo, all’insegna di un obiettivo che reca definizioni diverse, sfumate o invece crude: si parla, infatti, di «dolce morte» o di «suicidio assistito». Sta di fatto che l’attività, svolta da associazioni ad hoc, ha procurato alla Svizzera reputazione e credibilità ormai internazionali. Tanto da creare un settore turistico ben particolare, non certo da pubblicizzare, anche se assicura una clientela che, appunto, fa parlare di sé. Fra i candidati alla morte organizzata oltre frontiera, provenienti dalla vicina Penisola, figurano, non di rado e anche per motivi finanziari, personaggi di rilievo: scrittori, politici, pensatori, gente, insomma, che può permetterselo. Ciò che doveva provocare, figurarsi, il prevedibile commento sull’abilità elvetica di sfruttare ogni occasione per far quattrini.

Ora, per tornare all’aspetto contradditorio di questa notizia, proprio in Ticino siamo stati testimoni di una reazione rivelatrice: ecco che, mentre in Italia si ribadisce la necessità di adeguarsi, seguendo l’esempio di una Svizzera moderna e liberale, qui da noi le sedi destinate alla «dolce morte» sono guardate con sospetto. Anzi, per dirla tutta, la gente non ne vuol sapere: respinge la prospettiva che, a due passi dalla propria casa, si allestisca un centro che attirerà persone in procinto di suicidarsi, sia pure nel pieno rispetto della legge. Insomma, come è avvenuto a Melano e a Chiasso, si protesta nei confronti di un traffico insolito e, in fondo, inaccettabile. È una reazione popolare che la dice lunga e, a prima vista, può sembrare incongruente. Ma come, nella patria delle libertà, ci si rivolge alle autorità per limitarne la sfera, e nell’ambito in cui sono in gioco valori fondamentali quali la vita e la morte?

Invece, proprio qui, si registra uno scollamento fra libertà ipotetiche, promosse dal rinnovamento culturale ed etico, e tradizioni e consuetudini, ancora radicate. Alla morte si continua ad assegnare spazi e modi d’espressione particolari, e chissà se sostituibili: il cimitero, con il culto delle tombe fiorite, il funerale, momento di riunione amichevole, e, persino nell’era di un crescente laicismo, la presenza del sacerdote.

Con ciò, rilevando la continuità di abitudini e forme di pensiero tradizionali, non s’intende certo sottovalutare la portata di un rinnovamento giuridico, scientifico e morale: la possibilità di allargare la sfera delle scelte individuali sino a quella estrema, insomma, sono sempre io a decidere, sino alle soglie dell’ultima destinazione. Ma, destinazione non è la parola giusta. In pratica, optando per una fine su misura, personalizzata, si rifiuta implicitamente di sottostare ai colpi del destino, di dominare l’imprevedibilità, di cavarsela come meglio si crede. Un diritto dell’uomo contemporaneo o una pretesa in fondo irragionevole? Interrogativi e perplessità si giustificano. Anche questa opportunità si presta a malintesi e abusi. Rischia di diventare una tendenza, imposta da nuove correnti di pensiero e addirittura di subire una banalizzazione. Oggi può capitare di imbattersi in persone che esibiscono quasi come un vanto, una sorta di superiorità ideologica, l’adesione a organizzazioni ad hoc, apparentemente no profit. Attenzione, non si tratta dell’iscrizione al club sportivo bensì di una scelta che nell’ambito familiare può creare dolorose lacerazioni.