Sono passati trent’anni dall’uscita di un libro-intervista rimasto nella memoria di tanti addetti ai lavori degli studi letterari. Quel libro, intitolato Diligenza e voluttà (5½), viene ora riproposto da Garzanti: è un colloquio tra la giornalista-scrittrice Ludovica Ripa di Meana e il re della filologia, Gianfranco Contini, che nel 1989 aveva 77 anni e avrebbe avuto ancora un anno di vita, colpito come fu nel 1970 da un ictus che pur lasciando intatte le sue facoltà intellettuali ne rese quasi incomprensibile l’eloquio. Concettualmente chiarissimo e increspato qua e là da un’ironia a tratti inquietante. Per esempio, quando gli si chiede del suo amore per i laghi (a lui che era di Domodossola), il grande studioso risponde: «Dunque, guardi: io i laghi li amo… li amo inizialmente e poi, un po’ per volta, mi si sfanno tra le mani, non resistono. Resistono, forse, dei laghetti, così, reconditi, minuziosi, ma i grandi laghi che impressionano, che vorrebbero catturare… li sfuggo, li sfuggo. E del resto, ho fatto esperienza di vita su un lago, e è stata una vita sciapa, non saporita: non salata, appunto». Il mare? E già, il mare: «Il mare è, credo, lo stato di natura che mi mette fisicamente in euforia. Questo, specialmente se l’aria è molto jodata». Domanda: le piace guardare il mare? Risposta: «Certo, certo. Sia quando il mare è solo, sia quando è arricchito, non so, di Cinque Terre».
Ripa di Meana sa come far parlare un grande. Con tutta la calma, conoscendolo bene e ponendo le domande giuste. Un’altra sua intervista-ritratto indimenticabile è quella televisiva, realizzata con Gian Carlo Roscioni nel 1971, a Carlo Emilio Gadda: dove il vecchio scrittore, a proposito del suo sentimento verso i brianzoli, diceva che «non tutti sono condannati a essere intelligenti». Tornando a Contini, fa tenerezza sentire la totale riconoscenza del grande luminare per i suoi genitori: «Io sono stato benedetto nei genitori. Non credo di aver conosciuto altri che abbiano avuto genitori altrettanti amabili». E d’altra parte fa la stessa tenerezza sentirgli dire che teme di «non averli ripagati». Pensate, uno studioso come Contini, riconosciuto nel mondo come l’apice della critica letteraria, cresciuto con il rimorso di «non essere stato un buon figlio». Fa tenerezza pensare a Contini che a tre anni proclamava: «Sono il bambino più felice del mondo» e a sette anni scopriva l’infelicità sotto forma di angoscia che non lo lascerà più.
È un libro sorprendente per chi considera Contini il Maestro di generazioni di letterati, il massimo dopo Croce. Non perché questa intervista deluda. Tutt’altro. Perché ne mette a nudo le debolezze umane, ma dichiarate con la precisione del filologo. Fa effetto sentirlo confessare: «la più grande emozione estetica me l’ha data il Bernina, la discesa del Bernina fino a Poschiavo. È forse la cosa più bella in assoluto che abbia visto nella mia vita». Com’è possibile? Non Dante, non Petrarca, non Montale né Gadda? Sempre, comunque, Contini ha la parola giusta anche sulle cose che non gli competono: definisce «delusive» le ultime opere di Charlie Chaplin il cui intento «grossolanamente politico» a volte «incide sulla bellezza, sull’oggettività». Si dice «grato» ai figli che l’hanno convinto a sedersi davanti alla tv, per esempio per guardare i documentari di Piero Angela. Altri personaggi televisivi, dice, gli danno «repulsione»: non vuole citarli ma sono quelli «particolarmente applauditi dal pubblico».
E anche certi ritratti di amici, disegnati in velocità un po’ balbettando, sono fulminei e abbaglianti. Per esempio su Giorgio Morandi, che considera «il maggior pittore italiano di questo secolo» (il Novecento): «un uomo fisicamente straordinario (…). Altissimo, ossuto, con una frangetta canuta, sdentato, nuotante in abiti troppo larghi, era allora semplice, ascetico, ingenuo…». E un altro pittore amico, Filippo De Pisis: «uomo finissimo e di grande bontà sotto la specie di un corpo triviale e vizioso». E un terzo pittore, ma meno amico, Ottone Rosai: «Un corpaccione violento dalle mani e unghie terrificanti (…) terminava in un bel volto malinconico». (Rosai aveva un «pollice da strozzatore», diceva quella malalingua di Leo Longanesi).
Poi ovviamente c’è anche la letteratura, ma finisce per essere l’aspetto meno interessante. Per esempio l’Ortis di Ugo Foscolo, definito senza mezzi termini «uno dei libri che detesto di più al mondo» (idiosincrasia che Contini condivideva con il suo amico Gadda). O Ignazio Silone, considerato «un galantuomo straordinario» ma «uno scrittore inesistente». Il libro preferito? Contini non ha alcun dubbio: «è Port-Royal (di Charles Augustin Sainte-Beuve). Secondo me, incomparabilmente. È, per me, il più gran libro che sia stato scritto, il più nutriente per qualunque momento della mia vita». Il buon lettore? «Secondo me, è chi è disponibile a lasciarsi invadere dall’animo altrui (…). Il buon lettore deve poter giocare su molte tastiere. È nettamente poligamo. Assolutamente». E la letteratura? «Un modo di vivere».