È un vero peccato che le restrizioni imposte dalla pandemia abbiano azzoppato molte iniziative espositive. Qui si vorrebbe ricordare quella promossa dal Cantone, attraverso il programma «Cultura in movimento», un grappolo di manifestazioni legate al tema del viaggio e del paesaggio mirante, tra l’altro, a «mobilitare» sia le scuole che la cittadinanza. Il calendario contemplava tre mostre, allogate a Lugano, Locarno e Bellinzona. Palazzo Reali ha ospitato fino al 12 aprile le fotografie di Vincenzo Vicari, sotto il titolo «Il Ticino che cambia»; il Museo Casorella alcuni dipinti di artisti confederati e stranieri attivi nella regione nel secolo scorso («Occhi sul Ticino»), e infine Castelgrande ha omaggiato la tradizione fotografica cisalpina sviluppatasi dalla metà dell’Ottocento in poi («Il Ticino, i ticinesi e i loro fotografi»). Purtroppo le prime due hanno chiuso i battenti; solo la terza rimarrà aperta ai visitatori fino al prossimo 2 maggio.
Colpisce, di questa rassegna, la ricorrenza del termine «Ticino». Non siamo di fronte, crediamo, ad una ripresa del culto dei luoghi in un’ottica «cantonal-nazionalistica», ma al sintomo di un disagio sempre più frequente, diffuso ma non facilmente definibile e identificabile. Uno stato d’animo annidato negli interstizi della società, ma anche nella psiche di ogni singolo individuo, alle prese con un quadro di riferimento caleidoscopico.
Come sappiamo, il Ticino ha iniziato la sua corsa negli anni Sessanta del Novecento, un’accelerazione che non si è mai interrotta, anche se ha conosciuto momenti di stasi. Negli ultimi anni, l’orizzonte si è infittito di costruzioni, viadotti, gallerie, edifici di ogni foggia e funzione; si è fatto metropolitano, un organismo integrato e interconnesso, concentrato nel triangolo Locarno-Bellinzona-Lugano, con propaggini nel Mendrisiotto, a ridosso della «città infinita» lombarda.
Nel frattempo anche la popolazione ha cambiato pelle, i ticinesi di antico lignaggio (i «patrizi») sono diventati una minoranza all’interno di un consorzio umano sempre più multietnico, plurilingue e pluriconfessionale. Di qui l’ipotesi che andrebbe verificata tramite un’inchiesta d’ordine psico-sociologico: in che misura l’esperienza dello sradicamento dentro un paesaggio sempre meno riconoscibile ha modificato lo stare al mondo delle persone? Detto altrimenti: che significato ha preso l’abitare in un cantone che nel giro di pochi decenni ha assunto una fisionomia prettamente urbana, dopo secoli di ruralità?
Ultimamente, all’allarme per il vecchio Ticino morente, travolto dai flutti del progresso, si è aggiunto un altro fattore ansiogeno: quello del declino demografico. I nostri principali centri perdono abitanti, molti giovani riprendono il treno per Zurigo come già avevano fatto i loro genitori per ragioni di studio e di lavoro, con la differenza che non tornano più; il flusso dall’Italia si è interrotto, tranne nel caso dei frontalieri: probabilmente siamo di fronte ad un effetto di sostituzione che colpisce soprattutto le maestranze estere domiciliate. E comunque lo statuto del frontaliere sembra giovare ad entrambe le parti, sia agli imprenditori che ai lavoratori. Il quadro statistico non è sempre nitido, come spesso succede quanto si tratta di fissare sulla pellicola una realtà in continuo movimento. La tendenza al calo è comunque evidente (chi volesse conoscere i dati può consultare i materiali raccolti nel sito www.coscienzasvizzera.ch, come pure gli scritti di Elio Venturelli su «Azione»).
Già sin d’ora sarebbe però utile chiedersi quali saranno gli effetti di queste curve discendenti. Tra qualche anno la piramide dell’età (oggi a dire il vero sempre più panciuta) diventerà simile ad un’anfora, se non addirittura ad un triangolo rovesciato. Più o meno si riescono a prevedere le ripercussioni sul sistema previdenziale e assistenziale, sull’organizzazione socio-sanitaria, sulla pianificazione delle case di riposo. Ma come sarà vivere in un cantone «bianco per canuto pelo»? Quali le conseguenze per l’economia, la politica, la formazione, l’offerta culturale? La popolazione nella terza (o quarta) età è solitamente misoneista; diffida delle innovazioni e dei miracoli promessi dalle nuove tecnologie; preferisce conservare l’esistente piuttosto che gettarsi in avventure dall’esito incerto. Da qui un altro interrogativo: quanto è probabile la prospettiva di un Ticino senile nel corpo e nella mente, incapace di progettare il domani sullo slancio di energie fresche? Insomma, la materia di studio non manca. L’augurio è che le intelligenze collettive presenti sul territorio (USI-SUPSI, Accademia di Architettura, centri di competenza) contribuiscano ad allestire mappe utili a correggere la rotta.
Come sarà vivere nel Ticino canuto?
/ 26.04.2021
di Orazio Martinetti
di Orazio Martinetti