Come il boa che mangia l’elefante

/ 08.03.2021
di Alessandro Zanoli

Esattamente un anno fa Luigi provava di persona il morso del Coronavirus. Se ne ricorda un mattino davanti allo specchio, mentre sta facendosi la barba. Se ne ricorda per uno strano puzzo sgradevole, artificiale, tra il bruciaticcio e il sintetico, che è rimasto nel naso a sua moglie e a lui. E che ogni tanto si ripresenta. «Stamattina sento odore di Covid» dice lui prima di sedersi a colazione ed entrambi si scambiano un’occhiata significativa. Erano stati giorni di grande tensione, di paura dell’ignoto, anche di panico, vissuti insieme. Niente di paragonabile a come vediamo e viviamo oggi la pandemia. Giorni di messaggi scambiati con gli amici, di ricerca di informazioni, di rabbie contro i possibili untori. La comunicazione del medico, che confermava la positività, una notizia accolta con compostezza e consapevolezza, come quando si cammina sull’orlo di un precipizio, in un sentiero di montagna.

Luigi, ora che è andato tutto bene, ora che lui e sua moglie sono al sicuro da tempo e non hanno riportato strascichi importanti (a parte quell’odore fastidioso che di tanto in tanto ritorna) si volta a guardare quella primavera così anomala, allora, e così normale, oggi. Si preoccupa ancora, ma con cognizione di causa.
Una delle cose che lo stupisce è paragonare quello spavento globale, assoluto di fronte alle cifre (che tenevano la sua famiglia inchiodata alle statistiche dei contagi) alla relativa indifferenza, alla rassegnazione odierna. Il solo disegno di quel grafico, che si snoda nel tempo e registra un anno di diffusione del virus è significativo. Ricorda il disegno del «serpente boa che mangia l’elefante», nel Piccolo principe: la prima ondata dell’anno scorso è infinitamente piccola se paragonata all’esplosione della seconda ondata d’autunno. Se il mondo si fosse spaventato in modo proporzionale alle dimensioni raggiunte dalla curva, saremmo tutti tappati in casa, con due o tre mascherine sulla faccia e lo scotch attorno ai bordi della porta. Invece no, la vita continua. Abbiamo passato il Natale e il Capodanno che non immaginavamo di poter passare mai, abbiamo iniziato l’anno nuovo, e stiamo proseguendo nel nostro sentiero sul precipizio, con attenzione e preoccupazione. Molti si sono ammalati, molti sono guariti, molti non ce l’hanno fatta. Con profonda tristezza, continuiamo: cos’altro possiamo fare?

In quest’anno agli arresti domiciliari Luigi ha cercato «lati positivi» ovunque: occasioni per trasformare la reclusione in un campus formativo casalingo. Sua moglie segue tutti i giorni una lezione di Pilates impartita da un docente su Youtube, si è iscritta a corsi universitari online, ha ripreso a fare del bricolage come quando era ragazza (ordinando il materiale sul web). Lui si è rimesso finalmente a suonare con regolarità e impegno la sua chitarra, ogni giorno si esercita sulle scale e sugli accordi. Sta scambiando file musicali con gli amici ed è riuscito persino a mettere in piedi una band musicale virtuale. Ha aggiustato la vecchia bicicletta che era da tempo in cantina e cerca ogni giorno di tenersi in movimento esplorando la sua cittadina. Ha scoperto angoli che non conosceva, stradine non asfaltate, vallette nascoste e insospettabili: ogni giorno il suo telefono gli dà il resoconto dei suoi progressi e la misura esatta dei suo sforzi. Luigi si trova ogni giorno a ringraziare chi ha inventato i media digitali: anche lui era uno scettico tempo fa. «Abbasso la tecnologia viva la realtà!». Oggi senza il web saremmo messi molto peggio: continuiamo, teniamo duro, proprio in virtù di Internet.