Negli USA è partita la nuova sezione di Facebook dedicata all’informazione di qualità. Si chiama News Tab ed è una sezione dedicata alla quale si accede tramite un’icona a forma di quotidiano. Gli articoli si possono condividere, si possono aggiungere like e faccine ma niente commenti. Altra novità, c’è una redazione di giornalisti professionisti in carne e ossa che si occupa di selezionare e curare i contenuti più importanti e le notizie del giorno. Al resto, in particolare alla personalizzazione degli articoli, ci pensano gli algoritmi. Duecento le testate per ora coinvolte nel progetto tra queste anche «Washington Post» e «BuzzFeed News» ma anche media locali e media specializzati su singoli settori come la finanza o la scienza.
Per Fb il progetto è chiaramente improntato a smarcarsi dalle accuse di essere un veicolo di fake news e disinformazione ma anche dall’immagine di predatore della stampa. Nella primavera dello scorso anno, in un incontro con il CEO di Axel Springer Mathias Doepfner, Mark Zuckerberg disse: «Il giornalismo è importante per la democrazia ma Internet è stato dirompente per il tradizionale modello di business dei giornali. Credo che oggi abbiamo la responsabilità di collaborare con i media per costruire modelli sostenibili a lungo termine». Il CEO di Fb, lo stesso coinvolto nello scandalo politico dei dati con Cambridge Analytica, vuole dunque recuperare il rapporto con gli editori e lo fa con un gesto di rottura rispetto al passato e cioè pagando agli editori una sorta di diritto di licenza, dando a loro quasi tutti i proventi pubblicitari di questa sezione con la promessa di aumentare esponenzialmente il traffico sui loro siti. Per i compensi agli editori, ad alcuni non a tutti, si parla di cifre tra uno e i tre milioni di dollari.
Un’operazione simile è nata qualche anno fa in casa Apple con Apple News e ora con Apple News Plus, un’edicola virtuale alla quale ci si può abbonare per dieci dollari al mese, in cui si trova una ricca offerta di magazine come «The New Yorker» o «Wired» ma anche quotidiani come il «Wall Street Journal» (una delle prime testate ad avere avuto successo con gli abbonamenti digitali). La spartizione dei ricavi è del 50%. Il direttore del «New York Times» Mark Thompson ha declinato l’invito a farne parte, ritiene che affidare i contenuti a terze parti equivale a perdere il controllo sul proprio prodotto e sui propri lettori. Inoltre l’abbonamento mensile al quotidiano costa quindici dollari al mese, che senso ha entrare a far parte di un’edicola digitale che ne costa dieci?
Robert Thomson amministratore delegato di NewsCorp, il leader della resistenza dei media contro big tech dice «I dettagli dell’operazione li vedremo più avanti, per ora ciò che conta è il principio». Positiva anche la reazione di NPR, National Public Radio, che sottolinea l’importanza in un momento critico per tutto il settore di poter contare su un’entrata in più e un più ampio pubblico senza dover produrre nuovi servizi o contenuti. Josh Constine di Tech Crunch mette invece in guardia dalla strategia volubile di Fb: «entrare in questo progetto sarà come giocare a bocce durante un terremoto», si chiede agli editori di riporre fiducia in chi non la merita, basti pensare all’insuccesso degli Instant articles. Non vi è dubbio che quella di Zuckerberg sia in primis un’operazione di maquillage visto che negli ultimi anni non ha brillato per trasparenza sui dati, verifica delle informazioni o assunzione di responsabilità. Nei giorni scorsi Joe Biden e il suo staff su Twitter hanno lanciato una petizione affinché Fb elimini la disinformazione evitando che si ripeta ciò che è successo per le presidenziali del 2016. Ecco l’altro elemento che ha fatto scattare Zuckerberg, la notorietà che sta acquisendo il social di Jack Dorsey (Twitter è stata l’app più scaricata tra le sue affini in queste settimane) che ha avuto il coraggio (anche questo a Zuckerberg è sempre mancato) di prendere posizione contro i Tweet di Donald Trump bollandoli come contenenti falsità nel caso del voto postale (e rimandando a fonti giornalistiche attendibili come la CNN) o istigatori alla violenza nel caso del Tweet sugli accadimenti di Minneapolis.
Che i social media stiano prendendo coscienza e non vogliano più essere considerati solo dei contenitori, dei dispensatori di tecnologia che non si assumono alcuna responsabilità circa i contenuti che diffondono? La speranza è l’ultima a morire e di questi tempi ne abbiamo bisogno.