Nelle scorse settimane ho osservato con un certo disagio la straordinaria attenzione che i media hanno dedicato all’incoronazione di re Carlo III, avvenuta – salvo sorprese – il giorno dopo la messa in stampa di «Azione». Ma sì, capisco, non solo si trattava di un fatto storico (sua madre venne incoronata 70 anni fa), ma riguardava il grosso dell’universo monarchico contemporaneo, se si calcola che sulle 43 monarchie sopravvissute nel mondo, 15 regni hanno per sovrano proprio il re del Regno Unito, in quanto membri del Commonwealth: Antigua e Barbuda, Australia, Bahamas, Belize, Canada, Grenada, Giamaica, Nuova Zelanda, Papua Nuova Guinea, Saint Kitts e Nevis, Santa Lucia, Saint Vincent e Grenadine, Isole Salomone e Tuvalu.
Ma non suona strano anche a voi che Paesi democraticissimi come il Canada e l’Australia abbiano un re che vive come dentro una fiaba barocca dall’altra parte dell’oceano?
Certo, lo sappiamo: la maggior parte delle monarchie di oggi non ha niente a che vedere con quelle terribilmente assolutiste di ieri, in cui il re era un’emanazione di Dio, indiscutibile e intoccabile, degno ipso facto di inchini, protocolli, salamelecchi e – soprattutto – di incondizionata obbedienza da parte dei sudditi, il «popolo bue» che non aveva voce in capitolo su nulla.
Oggi, per fortuna, prevalgono le monarchie costituzionali, dove i poteri del sovrano sono ampiamente limitati dalla Costituzione, o le monarchie parlamentari (come nel Regno Unito) dove i poteri del monarca sono indicati non solo dalla Costituzione, ma anche dal Parlamento e dal Governo (che non viene scelto dal re, e ci mancherebbe). Vero che resistono ancora almeno due monarchie assolute, diversissime nelle persone e negli esiti democratici: la Città del Vaticano, guidata da quel galantuomo di Papa Francesco e l’Arabia Saudita, retta da quel dubbio figuro che risponde al nome di Salman. Ma in generale bisogna riconoscere che la monarchia, oggi, non rappresenta un pericolo per la democrazia.
Non mi tocca, inoltre, che le baruffe tra fratelli, gli sgarbi o presunti tali alla corona e le disavventure famigliar-sentimentali di principi, principini e starlette loro satelliti alimentino a getto continuo grasse pagine di rotocalchi, con foto assassine, narrazioni seriali, rivelazioni scandalizzate su uomini e donne dal sangue color cobalto o giù di lì. Meno ancora mi incanta la scalata alle classifiche dei libri più venduti delle rivelazioni di Harry, vittima rossocrinuta di educazione vagamente anafettiva. Fatti loro, per dirla con un minimo d’eleganza. Anche se per molti è come parlare di un parente o un vicino di casa scapestrato (ma lo sai cos’ha combinato, stavolta?).
A me, invece, i re e le schiatte nobiliari stanno stretti. Resto figlio dei lumi, delle rivoluzioni che hanno sancito, con gran sacrificio di vite umane, la fine dei privilegi di casta, di casato e di blasone perpetrati nei secoli e nei millenni sulla pelle dei servi. Non dimentico che qualsiasi monarchia, anche la più blanda e aperta alla modernità, prevede obbligatoriamente dei sudditi. Sorrido per le fanfare e gli sventolii entusiastici di bandiere al passaggio delle carrozze dorate, è un grande spettacolo che a quanto pare dovremmo perfino ritenere sobrio (solo 2000 gli invitati, questa volta: un quarto di quelli del 1953, all’incoronazione di Elisabetta). Ma non trovo una sola ragione per cui oggi un essere umano dotato di intelligenza e di libertà debba inchinarsi davanti a un re, a una regina o ai loro scintillanti cortigiani. Non sono un fan delle servitù volontarie. E vado fiero della piccola Svizzera, forse l’unico Paese, con San Marino, a non essere mai stato monarchico.