In Italia si sono vissuti giorni di autentico furore popolare nei confronti dei Paesi definiti «frugali», o meglio ancora «tirchi», accusati di essere incapaci di solidarietà neppure nel momento più drammatico della storia recente, con decine di migliaia di morti e centinaia di migliaia di posti di lavoro bruciati a causa della pandemia.
Ci sono però alcune cose da far notare. Alcuni tra i governi più condizionati dal rigore non sono guidati da sovranisti, bensì da socialdemocratici: è così in Svezia, in Danimarca, in Finlandia. Ma il vero grande nemico è stato identificato in Mark Rutte, il primo ministro olandese, cui è stato contrapposto Giuseppe Conte.
In realtà, il vero scontro non è stato tra Italia e Olanda, tanto meno tra Conte e Rutte. È stato ed è tra due visioni dell’Europa e dell’economia. Tra due diverse idee dell’etica della responsabilità.
Quando c’è da sostenere un confronto, occorre darsi due regole. La prima: avere dietro un Paese unito, almeno nella tutela dell’interesse nazionale; Matteo Salvini che in pieno vertice europeo ha chiesto le dimissioni del presidente del Consiglio non ha certo fatto l’interesse nazionale. La seconda: mettersi nei panni dell’interlocutore, tentare di capire come ragiona, per comprendere le sue mosse e magari prevenirle, fino a trovare un punto di accordo.
L’Olanda è un Paese importante, al di là dei suoi abitanti e del suo Prodotto interno lordo. È il Paese di Erasmo da Rotterdam e di Baruch Spinoza (oltre che di Rembrandt e Van Gogh, di Vermeer e Mondrian). È il posto dove si stampavano i libri proibiti dall’Inquisizione. Ancora oggi, è un Paese liberale, in cui pure l’estrema destra è estremamente liberale: il suo fondatore, Pim Fortuyn, era un omosessuale dichiarato, che ce l’aveva con gli arabi perché «mi considerano un cane», e fu assassinato non da un arabo bensì da un animalista, perché girava in pelliccia e sosteneva che chiunque potesse vestirsi come gli pareva (dopo di lui è venuto Geert Wilders, che è un’altra cosa).
Gli italiani dovrebbero provare a mettersi nei panni di un contribuente olandese, il quale sa che l’Italia ha il record dell’evasione fiscale – cento miliardi di euro - e del risparmio privato – che a ogni crisi aumenta -, e quindi pensa: perché devo mettere io i soldi che gli italiani non versano al fisco e non sono disposti a investire nel loro Paese? Inoltre già oggi l’Italia non riesce a spendere tutti i fondi europei, che non finanziano sussidi e stipendi facili ma cantieri e progetti, che all’evidenza mancano.
Ovviamente anche gli italiani hanno le loro buone ragioni. Potrebbero rispondere al contribuente olandese che il suo governo non dovrebbe fare concorrenza sleale agli altri europei, attirando la sede delle aziende straniere con condizioni fiscali di vantaggio. Inoltre, è assurdo pensare di spendere centinaia di miliardi solo nel digitale e nella transizione ecologica; una parte deve servire a ristorare i danni da lockdown, ad esempio aiutando chi ha perso il lavoro.
Tuttavia sarebbe assurdo anche agire solo sul versante dell’assistenza. Blocco dei licenziamenti, proroga della cassa integrazione, reddito d’emergenza: tutto giusto. Ma un grande Paese industriale non può vivere di sussidi aspettando che passi la nottata. Occorrono sia una visione, sia misure concrete.
L’Europa deve fare in fretta, e non deve limitarsi a controllare come i singoli Paesi intendono spendere le risorse del Recovery Fund. L’Europa deve farsi promotrice di grandi investimenti, pubblici e privati. Molti Paesi, però, si sono rifugiati più nelle formule che nei provvedimenti operativi. Emmanuel Macron ha rivendicato «l’indipendenza industriale, agricola, tecnologica» della Francia e dell’Europa; obiettivo senz’altro condivisibile, ma tutto da raggiungere. Anche il piano firmato da Pedro Sanchez con gli imprenditori e i sindacati disegna una serie di obiettivi a lunga scadenza, più che misure concrete. Tutti noi europei siamo stati presi di sorpresa da un’epidemia che ha cambiato le nostre vite e i meccanismi economici; e l’Italia non ha l’autonomia monetaria che ha consentito agli Usa e al Regno Unito di dare una risposta immediata.
A Londra ad esempio l’Iva su alberghi e ristoranti è passata dal 20 al 5%; in Italia la diminuzione delle imposte indirette è rimasta sulla carta. Meglio così, forse; una seria riforma fiscale dovrebbe partire dalle tasse sul lavoro; ma - anche qui – si è ancora fermi agli annunci, per quanto reiterati; nel frattempo le aliquote Irpef restano le stesse. Il gettito fiscale non può essere abbattuto; deve essere dosato in modo equo, anziché gravare quasi tutto su lavoratori dipendenti e pensionati. Insomma, l’Italia per convincere gli alleati europei deve prima fare le riforme in casa propria.