Sollecitati da una grande massa di stimoli, molti bambini entrano in prima elementare sapendo già leggere e scrivere. Io no. La mia lingua materna era il piemontese, tuttora nella pratica della vita quotidiana mi accade di pensare e di nominare azioni e oggetti in dialetto e doverli tradurre mentalmente prima di parlare. Posseggo una collezione di vocabolari e sempre ne tengo uno nei paraggi per evitare gli svarioni. La mia scoperta della lingua italiana avvenne in classe e mi colmò il petto di un entusiasmo travolgente al punto che, condotto per mano da mia nonna paterna, leggevo ad alta voce tutte le parole – insegne, slogan, scritte sui muri – che incontravo per strada, sfinendo quella povera donna. Se m’impadronivo di una parola lunga e difficile non la mollavo più, la ripetevo all’infinito. Mia madre, al colmo della disperazione, strillava: «Se dici ancora una volta prolegomeni ti ammazzo!» E io, a distanza di sicurezza: «Procrastinare… procrastinare…».
Sono entrato in prima elementare nell’autunno del 1943, avevo sei anni. Per le vie di Asti girava un terzetto di giovanotti in divisa, con un secchio di vernice nera e un pennello da imbianchino. Uno reggeva un grande foglio rettangolare di compensato intagliato all’interno seguendo il profilo di lettere e di disegni. Procedevano lentamente e tutte le volte che scoprivano ad altezza d’uomo una porzione sgombra del muro di una casa si mettevano all’opera. In due tenevano fermo il compensato mentre il terzo, intinto il pennello nel secchio di vernice, lo passava sul foglio, tolto il quale comparivano sul muro il disegno dello scheletro di una testa con le ossa incrociate e in basso una scritta in lettere maiuscole.
Mia nonna mi strattonava ma io, affascinato da quella magia, non mi schiodavo, dovevo prima leggere sillabando quelle parole nere: «Morte a chi sente radio Londra!». Lasciandomi trascinare dissi a mia nonna, ad alta voce: «Mio papà l’ascolta sempre!», fiero di avere un padre che rischiava la vita per ascoltare la radio. Uno dei tre, forse il capo pattuglia, si voltò di scatto per vedere chi aveva parlato e, incrociando lo sguardo con quello di mia nonna, si bloccò: i due si conoscevano. Lasciò trascorrere qualche secondo prima di incitare i due compari: andiamo! A quella data l’esercito alleato aveva già liberato l’Italia del Sud, nessuno poteva farsi illusioni sulle sorti della guerra. Forse quello sconosciuto capo pattuglia pensava di crearsi qualche attenuante al momento della resa dei conti.
Da quel giorno sono trascorsi quasi ottanta anni ma quel piccolo mostro saccente è ancora presente. È seduto su una panchina, sempre con la nonna, sotto la pensilina della fermata dei mezzi pubblici. Sosta un autobus di un’altra linea e sulla sua fiancata è incollato un grande cartellone pubblicitario di un servizio sanitario. L’immagine è quella di due fiammiferi su un letto matrimoniale, seduti con la schiena appoggiata ai cuscini; la capocchia del fiammifero di sinistra ha preso fuoco. Nella parte alta del disegno campeggiano due parole. Il nostro eroe le legge a voce alta e domanda, sempre al massimo volume: «Nonna, cosa significa eiaculazione?».
La nonna sa per esperienza che il tentativo di zittire il nipote produrrebbe l’effetto contrario e improvvisa una definizione basata sull’assonanza: «Significa colazione». «E precoce cosa vuol dire?». Qui la nonna va sul sicuro: «Precoce significa troppo presto». Il piccolo Bruno sospetta che non gliela contino giusta: «E tu come fai a capire quando questa eiaculazione arriva troppo presto?». La nonna cerca soccorso nella figura: «Non vedi il disegno? Quei due fiammiferi sono ancora a letto; è evidente che a quello di sinistra hanno portato la colazione troppo presto e lui ha preso fuoco».
La logica esige rispetto: «Se ha preso fuoco significa che non gli è arrivata una colazione precoce, ma se mai troppo calda». L’autobus con la fiancata occupata dalla pubblicità progresso nel frattempo è ripartito ma la nostra piccola carogna ha memorizzato la scritta: «Sotto eiaculazione precoce c’era scritto parlane al tuo medico. Perché il nostro medico dovrebbe sapere come a casa nostra facciamo eiaculazione?». «Ai medici bisogna sempre dire tutto se si vuole guarire». «Perché, fare eiaculazione troppo presto è forse una malattia? Perché il dottore, quando mi visita, non mi domanda mai come va con l’eiaculazione?». Il nostro tram si ostina a non passare, sotto la pensilina s’è radunata una discreta folla; nessuno perde una sillaba del dialogo fra i due.
La nonna prende l’unica decisione possibile: «Il nostro tram non passa più, si è fatto tardi, torniamo a casa». Bruno è d’accordo: «Sì. Dirò alla mia mamma che d’ora in poi anch’io alla domenica voglio avere un’eiaculazione precoce».