Clima, urgenza non fa rima con fattibilità

/ 08.11.2021
di Peter Schiesser

Archiviata la prima settimana, con i discorsi di reali e governanti (alcuni come Xi Jinping e Vladimir Putin hanno brillato per l’assenza) e le manifestazioni di protesta corollarie, la 26esima conferenza sul clima di Glasgow entra nel vivo: in questi giorni si deciderà quanto avanti ci porterà nella lotta al surriscaldamento dell’atmosfera. Sarà un successo, un insuccesso? Dipende dalle aspettative. Siccome i nefasti mutamenti del clima sono già palpabili, non si tratta più di prevenirli ma di evitare il peggio: l’urgenza richiede decisioni drastiche e vincolanti, piani di azione concreti per la riduzione delle emissioni di CO2, finanziamenti per centinaia di miliardi di dollari per aiutare i paesi più poveri a decarbonizzare le loro economie, visioni e investimenti per sottrarre CO2 dall’atmosfera su vasta scala. Ma la realtà purtroppo è un’altra, ogni Stato, ogni regione geografica ha altri interessi, altre priorità, altri funzionamenti. Glasgow, a meno di un insuccesso come la conferenza di Copenaghen nel 2009, sarà probabilmente un’ulteriore tappa in un processo decennale, cominciato a Rio de Janeiro nel 1997. Per gli uni sarà un bicchiere mezzo pieno, per gli altri mezzo vuoto.

Mezzo vuoto perché un successo solo parziale significherebbe che l’obiettivo fissato a Parigi sei anni fa di contenere al di sotto dei 2 gradi l’aumento della temperatura terrestre dovrà essere abbandonato. Se consideriamo che già un aumento di 1,5 gradi porta con sé molti rischi e cataclismi (siamo a 1,1 gradi e già ce ne accorgiamo), ogni aumento superiore comporterà conseguenze ancora peggiori. Come ricostruito dal «New York Post», seguendo la tendenza in atto prima delle decisioni prese a Parigi, alla fine del secolo la temperatura globale sarebbe stata di 4 gradi in più, oggi considerata la rapida crescita dell’uso di energie rinnovabili si limiterebbe l’aumento a 3 gradi (pur sempre catastrofico), e se ogni paese implementasse davvero le riduzioni di emissioni di CO2 annunciate l’aumento sarebbe di 2,1-2,4 gradi. Sempre troppo.

Tuttavia, anche questo è in dubbio. Poiché un’economia a zero emissioni, come promessa da più parti, oltre ad essere prevista tardi, fra il 2050 (Stati uniti e Unione europea), il 2060 (Cina) e il 2070 (India), va resa concreta, e invece ne siamo ben distanti. In particolare, né Cina né India hanno piani precisi e finanziamenti previsti per l’abbandono del carbone, da cui traggono gran parte dell’elettricità. Ciò vale per tutti i paesi dell’Asia, la regione al mondo che ad oggi emette in termini reali la maggior quantità di CO2 e domani ancor di più. Dovrebbero essere i primi a preoccuparsi, centinaia di milioni di persone vivono in riva al mare, ma ondate di calore, siccità, inondazioni, innalzamento del livello del mare pesano meno della crescita economica. I paesi in via di sviluppo ribadiscono il diritto a un benessere materiale. Parallelamente, ricordano che è l’Occidente a portare la responsabilità storica, sono stati la sua rivoluzione industriale e poi l’enorme progresso e benessere materiale che hanno portato agli squilibri climatici attuali. A questo punto, l’unica soluzione per motivare i paesi asiatici, latinoamericani, africani, è di concretizzare la promessa di sostegno finanziario e tecnologico alla riconversione delle loro economie e società. Pur con tutti i rischi che comporta (in inefficienza e corruzione), è il pegno storico che l’Occidente è chiamato a pagare, e prima lo fa meno peggio se la cava.

C’è poi un’altra dimensione: è urgente frenare fino ad azzerare le emissioni di CO2, ma la concentrazione attuale nell’atmosfera resta comunque eccessiva, e crescerà per decenni. Duemila anni fa si era a 285 parti per milione, dalla metà del secolo scorso la linea si è fatta verticale e oggi si superano le 400 parti. Va ridotta, anche se sarà possibile solo sul lungo termine. Piantando più alberi da una parte, ma anche investendo in macchinari che risucchiano il CO2 dall’aria. In Svizzera lo fa da anni la Climeworks a Hinwil, ora ha aperto anche un impianto in Islanda. Altre ditte simili esistono nel mondo, la tecnologia è ancora carissima, ma se applicata su vasta scala i costi scenderanno. È la nuova frontiera della lotta ai cambiamenti climatici. Il bicchiere mezzo pieno è dato dall’evoluzione tecnologica e dalla volontà di utilizzarla.