Le stelle ci aiutano a decifrare l’enigma dell’artista? A spiegarci il mistero della sua venuta tra noi? Per avere una risposta affermativa è sufficiente ripercorrere le biografie degli artisti. Giorgio Vasari nelle sue Vite de’ più eccellenti pittori, scultori et architettori (1550) al passo relativo alla nascita di Michelangelo scrive che «avendo Mercurio e Venere in seconda nella casa di Giove con aspetto benigno ricevuto (…) si doveva vedere ne’ fatti di costui, per arte di mano e d’ingegno, opere maravigliose e stupende».
Non c’è nulla di deterministico, non è detto che colui che nasce sotto una favorevole configurazione di astri debba diventare da grande un artista. «Su una moltitudine di bambini dotati solo una ristretta minoranza riesce in seguito ad affermarsi in virtù della propria creatività artistica». (Ernst Kris e Otto Kurz, La leggenda dell’artista). Affinché dal bruco ricco di doni celesti nasca la farfalla artista è necessario che il bambino riceva gli stimoli giusti. Il piccolo Michelangelo fu portato a Settignano dove fu allattato dalla moglie di un tagliapietre, una circostanza che gli consentirà di affermare «tirai dal latte della mia balia gli scarpegli e ’l mazzuolo con che io fo le figure». Se invece che moglie di un tagliapietre la balia di Michelangelo fosse stata moglie di un cuoco, gusteremmo dei piatti straordinari? Avremmo forse «il cinghiale alla Michelangelo»? Le stelle devono cooperare a rendere propizie le circostanze in cui avviene la prima rivelazione delle doti dell’artista in nuce.
Ricordiamo tutti il celeberrimo episodio relativo alla vita di Giotto, un topos ricorrente nelle biografie di molti altri artisti. Il futuro maestro della Cappella degli Scrovegni è un pastorello che, citiamo ancora il Vasari, «sopra una lastra piana e pulita con un sasso un poco appuntito, ritraeva una pecora al naturale». Come ci raccontava la nostra maestra delle elementari (l’immagine del ragazzo Giotto era riprodotta sul coperchio della mia scatola di matite colorate), il grande Cimabue che passava da quelle parti, lo vede e lo porta a lavorare nella sua bottega. «E ben presto l’allievo superò il maestro».
Un ragazzo che vuol diventare pittore quali opportunità avrebbe oggi di farsi notare da un maestro? Ammesso che riesca a convincere un allevatore a prestargli un paio di pecore, come deve muoversi per incocciare «per caso» nel maestro? Costui corre veloce in autostrada o in treno; ammesso che lo noti e s’incuriosisca non ha modo di fermarsi per proporgli di entrare nel suo studio (dove per i primi dieci anni sarà addetto alla pulizia dei pennelli).
L’unica possibilità che resta al nostro ragazzo per farsi notare consiste nell’agire da graffitista, imbrattando il muro della casa di fronte a quella del maestro nell’ora in cui lui, appena sveglio e ancora in vestaglia, sorbisce il primo caffè della giornata guardando fuori dalla finestra per decidere, in base al tempo atmosferico, cosa indossare. Sempre che la custode del palazzo signorile non abbia nel frattempo telefonato ai vigili urbani. Dobbiamo augurarci la benevolenza delle stelle anche nel faticoso cammino che l’artista deve compiere per far sì che la società nella quale vive e opera riconosca il suo status. È un problema che hanno anche gli scrittori.
Raccontava Luis Sepulveda: «Mi ricordo sempre di un ufficiale di dogana a Quito: ogni volta che dovevo mendicare un visto mi chiedeva la professione. Quando gli rispondevo scrittore ripeteva: le ho chiesto la professione». Si tratta di un passaggio chiave nella vita di un artista e tutte le biografie vi si soffermano compiaciute. Tra gli episodi più citati figurano: l’imperatore Massimiliano ordina a un nobiluomo di tenere ferma la scala su cui sta lavorando Dürer; Carlo V raccoglie il pennello caduto a Tiziano. Van Mander racconta che Hans Holbein aveva avuto una lite con un gentiluomo e l’aveva buttato giù dalle scale. Costui era andato a lamentarsi dal re meritandosi la seguente risposta: «Volendo potrei fare di sette contadini altrettanti conti, ma mai un Hans Holbein da sette conti».
Ai giorni nostri potrebbero ripetersi episodi analoghi? Chi deleghiamo a tener ferma la scala o a raccogliere il pennello caduto? Un critico d’arte sarebbe felice di farlo ma, consentendoglielo, corriamo il rischio che lui ne approfitti per costruirci sopra una nuova teoria estetica in base alla quale la vera opera d’arte non è il quadro ma il suo gesto di reggere la scala o di raccogliere il pennello. Anche le opere, una volta terminate, hanno bisogno di una felice congiunzione degli astri. Un tempo restavano uniche. Ora troviamo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Walter Benjamin, 1936) che si diffonde nel mondo.
Jackson Pollock, roso dall’ansia di non riuscire più a esprimere il suo mondo interiore, si è tolto la vita. Ma non l’ha fatto per permettere all’arredatore di appendere la riproduzione di un suo quadro sulla parete dell’ufficio del mio commercialista.