Domenica 20 novembre alle 17.00, Qatar ed Ecuador apriranno la Coppa del Mondo più insanguinata della storia. Da quel plumbeo 2 dicembre del 2010, quando dagli uffici zurighesi della FIFA è uscito il verdetto relativo all’assegnazione della manifestazione, è partito un treno carico di perplessità. Ci si chiedeva cosa c’entrasse quell’emirato arabo con il calcio. Che senso avesse gareggiare in un paese in cui le donne vengono pesantissimamente discriminate. Un paese in cui ascoltare musica è considerato un reato.
Tuttavia non si è gridato allo scandalo fino a quando un’inchiesta del «Guardian», pubblicata nel febbraio dello scorso anno, ha messo a nudo le condizioni disumane di lavoro, i soprusi, lo sfruttamento, i morti. Ben 6500 lavoratori sono state le vittime sacrificali di una Coppa del Mondo fuori dal tempo (si giocherà tra autunno e inverno), e fuori da ogni ragionevole logica. In pochi anni questi uomini hanno contribuito alla costruzione di sette nuovi stadi con capienza variabile tra 40mila e 86mila posti. Loro sono morti. Gli stadi rimarranno, è il caso di dirlo, come cattedrali nel deserto.
La perplessità si è quindi tramutata in indignazione. In Svizzera, i primi a fare la voce grossa e a raccomandare il boicottaggio della manifestazione, sono stati i Giovani Socialisti, «Vox clamantis in deserto». La loro risoluzione, adottata nel giugno dello scorso anno, ha avuto scarso seguito. Ora però ci si avvicina al calcio d’inizio. Si moltiplicano i segnali di disagio, di malcontento, di protesta. Ma nessuno, almeno fra chi conta e avrebbe un peso specifico enorme, lancia strali che possano far vacillare lo svolgimento della rassegna iridata.
Amnesty International parla di «Mondiali della vergogna». Molte città, le francesi in testa, hanno annunciato di non voler aderire agli entusiasmi popolari, evitando quindi l’allestimento di Fan Zone con tanto di mega schermi. Già lo scorso anno, in Norvegia l’idea del boicottaggio da parte della Nazionale scandinava, era stata bocciata dai vertici federali, ma solo perché temevano le rappresaglie minacciate dalla FIFA. Il portavoce dei tifosi aveva comunque dichiarato che giocare in «Qatar sarebbe stato come giocare nei cimiteri». Philipp Lahm, ex capitano della Nazionale tedesca ha detto di non voler far parte della delegazione del suo paese: «Preferisco restare a casa. I diritti umani devono avere un ruolo maggiore nell’assegnazione delle manifestazioni sportive».
In Danimarca, lo sponsor principale della Nazionale ha deciso di rinunciare alla sua visibilità sulla maglietta, proponendo ai suoi calciatori tre tute in tinta unita. Una rossa, una bianca (ovvero i colori tradizionali), e una nera, a sottolineare il lutto per i lavoratori scomparsi. Insomma da qui al calcio d’inizio vedremo altre azioni di protesta. Tutte lodevoli. Tutte lasciano trasparire tristezza e imbarazzo.
Ma con ogni probabilità, giovedì 24 novembre alle 11.00, quando la Nazionale rossocrociata inaugurerà il suo mondiale contro il Camerun, molti di noi saranno sul divano di casa. A trepidare, a gioire, a piangere, o a imprecare contro quel signore che fino ad alcuni anni fa era vestito di nero. Perché il calcio – e lo sport in genere, lo si voglia o no – veicola passioni irrazionali che trascendono classi, razze, generi, età.
In fondo la stessa cosa è capitata pochi mesi fa con i Giochi Olimpici invernali di Pechino. Potremmo tentare un esercizio. Appendiamo su una parete in salotto la scritta «Questi Mondiali sono costati la vita a oltre 6500 esseri umani». Saremmo capaci di non accendere TV? Forse qualcuno ci riuscirà. Probabilmente una minoranza, non sufficiente per far capire al signor Gianni Infantino e ai delegati della FIFA che quel lontano 2 dicembre del 2010 hanno preso una decisione infausta.
È comunque doveroso fare in modo che una situazione simile non si ripeta. Disposti a gioire fra poche settimane? D’accordo, siamo fragili e cedevoli all’effimero. Ma dovremo essere pronti anche a scendere in campo vestiti da stopper implacabili, qualora ai signori che dirigono il calcio in FIFA-Strasse 20 a Zurigo, venisse ancora qualche malsana tentazione.