Dopo sedici ore di travaglio e un cesareo d’emergenza, Jauna, sposa fantasma di Ranbir, bracciante in Terra di Lavoro, mette al mondo una bimba di due chili e seicento grammi: Chuni. Il dottore convoca il giovane padre, e gli spiega che la piccola deve essere trasferita d’urgenza in un ospedale pediatrico specializzato. Ranbir lavora in Italia da quasi dieci anni. Partì ragazzo, con lo zio. Da allora, ha sempre vissuto fra le serre, spostandosi di pochi chilometri. È forte, silenzioso, affidabile, quindi lo hanno messo in regola, sebbene la sua busta paga non corrisponda a quanto realmente riceve. Non si è mai lamentato. Per questo l’anno scorso è potuto tornare nel Punjab, a prendere la sposa scelta dai suoi genitori. Jauna – timida, occhi di giovenca, pelle di bronzo – gli è sembrata bellissima, e da allora anche la sua vita in Italia è diventata meravigliosa. Ha venticinque anni, e il futuro gli sorride. Però non capisce bene l’italiano. Abbastanza per sopravvivere, fare compere in paese. Non per comprendere ciò che gli dice il dottore. Sale sull’eliambulanza inebetito, pensando che Chuni morirà, e Jauna si risveglierà dall’anestesia sola, in un letto d’ospedale, e penserà che l’ha abbandonata perché non ha saputo fargli una figlia sana.
Chuni ha la labiopalatoschisi. È una deformità cui si rimedia, gli assicurano. Ma per ora non può alimentarsi naturalmente, deve essere ricoverata all’ospedale dei bambini. E un genitore deve restare con lei. Ranbir protesta di non potersi assentare dal lavoro. È il periodo del raccolto. La mediatrice culturale – una signora dell’India del Sud, laureata in psicologia – gli spiega che è la legge: se si allontana, partirà la segnalazione ai servizi sociali, e rischia di perderla, la bambina. Ranbir si mette a piangere. Non vuole perdere la figlia, ma nemmeno il lavoro. Non può fare una scelta così. Nella culletta, Chuni soffia il suo dolore disperata, come un gattino. Allora Ranbir si siede sulla poltrona prevista per l’accompagnatore – di solito la mamma – e ci resta per quaranta giorni, alzandosi solo per andare in bagno, comprare un panino al bar, telefonare a Jauna per dirle che Chuni ce la farà, prende peso, appena possibile torneranno.
Il giovane padre col turbante, che si aggira smarrito nel reparto con la neonata minuscola in braccio, diventa popolare. La mediatrice culturale si rende conto che è analfabeta, che non può leggere neanche le indicazioni nei corridoi, è un marziano nel pianeta pediatrico, e ha bisogno di aiuto. Più di Chuni, che come i cuccioli di tutte le specie si limita ad avere bisogni primari, presto soddisfatti.
Nella stessa stanza sono in quattro bambini, con relativi genitori. Vengono da quattro continenti diversi. Bambini e genitori piangono nello stesso modo, e nello stesso modo sperano. Imparano l’italiano per la necessità di aiutarsi a vicenda. È una strana scuola, ma è l’unica cui Ranbir sia mai andato. Si può diventare italiani anche così. Dimettono Chuni dandogli appuntamento fra sei mesi, per la prima delle operazioni di ricostruzione del palato e del labbro. Non deve aver paura, sarà bellissima, col tempo le resterà solo una piccola cicatrice… La disgrazia lo salva: il boss lo riprende nella squadra, in tempo per raccogliere i meloni. Però all’ospedale Ranbir ha visto le maestre che facevano lezione ai bambini malati, le lettere sui cubi di legno, la lavagna e i pennarelli. E ha sognato che Chuni vedrà cosa c’è al di là della plastica che copre le serre, del muro che limita i campi di cocomeri, dell’autostrada che li separa da tutto. Uscendo, al chiosco davanti all’ospedale compra un palloncino a forma di liocorno. Un animale di cui ignorava l’esistenza. Il palloncino resta nella baracca e poi nel casale in cui si trasferiscono quando la famiglia cresce. Il primo giorno di scuola di Chuni, Ranbir lo scioglie dal palo: poiché nella campagna brulla non ci sono ostacoli dove possa impigliarsi, sale verso il cielo e scompare. Così anche tu Chuni, promette Ranbir. Ha già altri tre figli. Ma Chuni è speciale. La sua sfortuna l’ha liberata.