Mezzo secolo fa, precisamente nella notte fra il 2 e il 3 dicembre, al Groote Schuur Hospital di Città del Capo, fu portato a termine un intervento senza precedenti: il primo trapianto cardiaco. E proprio la simbologia che, da sempre, spetta al cuore, sede della nostra affettività, doveva attribuire all’operazione un risalto particolare, non soltanto dal profilo medico-tecnologico ma anche umano e morale. Per di più, ad alimentare una notorietà contraddittoria, in bilico fra speranze e timori, era l’autore stesso di questa performance: il dottor Christian Barnard, 43 anni, un aspetto attraente di tipo hollywoodiano, fotogenico e ben disposto nei confronti della popolarità che lo circondava. Di lui si vedevano, su giornali e teleschermi, le immagini in giro per il mondo, si conoscevano le abitudini private, la passione per il golf e, soprattutto, per le donne, giovani e belle e, non da ultimo, per un compiaciuto egocentrismo. Erano i connotati di un divo, un precursore della comunicazione scientifica, cioè una figura inedita, in una categoria professionale allora lontana dai riflettori mediatici. E, appunto, questa fama di protagonista della mondanità fini per avere il sopravvento. Come dimostra un fatto di cronaca di casa nostra.
Il 5 marzo 1970, Christian Barnard, accompagnato dalla moglie Barbara, arriva a Lugano, per tenere una conferenza nell’auditorio della Radio, affollatissimo, sul tema « Trapianti cardiaci : successo o fallimento?». L’avvenimento, di portata nazionale, sorprende la stampa d’oltre Gottardo. Come si spiega la presenza in Ticino di una delle più ricercate celebrità del momento? Ecco la risposta, pubblicata sul «Blick» del 3 marzo, con il titolo «I ticinesi esultano», e che ci concerne da vicino: «Ciò che finora nessuna università e nessun grande medico in Svizzera era riuscito a fare è, invece, stato ottenuto dalla Scuola Club Migros Ticino, grazie al responsabile delle attività culturali, Sergio Jacomella.» Nell’articolo si sottolineava, poi, la sorridente spontaneità di Barnard :«un ragazzone che ama il mondo e la gente». Precisando, infine, che l’eccezionale serata era costata «parecchio meno di 1000 franchi». Secondo il quotidiano zurighese, un grande successo, di cui ero stata diretta testimone. Che, però, fu tutt’altro che unanime.
Si manifestarono, infatti, reazioni di segno opposto, anche se di tenore diverso. Da un lato, quelle motivate da argomenti d’ordine scientifico. I medici ticinesi avevano, di proposito, snobbato l’appuntamento con Barnard. Lo ritenevano un propagandista di false illusioni e, addirittura, un usurpatore. Non era l’unico cardiochirurgo al mondo, obiettavano. A Zurigo, stava compiendo progressi promettenti la squadra, guidata da Ake Senning: che fu poi invitato a Lugano, dall’ordine dei medici, per una conferenza, volutamente esclusiva. In tono asciutto, un tecnico si rivolgeva ai dei tecnici. Nessuna concessione al pubblico, con buona pace della divulgazione, ancora di là da venire.
D’altro canto, quell’ormai storico incontro con un medico, troppo bello per essere bravo, fece affiorare i dubbi, i sospetti, i pregiudizi che producono i nostri malumori. Ne offre una testimonianza, spietatamente rivelatrice di mentalità, oltre che di stile giornalistico, l’articolo, comparso sul «Dovere», del 2 marzo ’70, dove si annunciava l’avvenimento. Sotto il titolo «Esauriti i biglietti per la conferenza Barnard sarà una bella…serata mondana», ecco il cappello introduttivo: «Per le donne un’occasione più unica che rara di poter vedere da vicino il cinquantenne famoso eternamente giovane; gli uomini, chissà, seguiranno le mogli nella speranza che anche il conferenziere porti la sua, giovanissima». Il seguito conferma l’avvio. Si parla di un chirurgo che, come «uomo che ha sfruttato la notorietà per guadagnarsi un posto nello “smart set” internazionale. Si allude alle «belle gambe della signora Barnard «messe generosamente in vista». Per concludere: «La cardiochirurgia? Un pretesto per dare a una serata mondana la patina di serietà».
Per Sergio Jacomella, l’episodio rifletteva l’incapacità, che era di ieri ed è di oggi, di accettare il nuovo.