Chi ha paura dello «schwa»?

/ 11.07.2022
di Aldo Grasso

Chi ha paura dello «schwa»? Tantissimi, a giudicare dalle polemiche che stanno incendiando social, web e giornali da quando è uscito per Einaudi Così non schwa un pamphlet di Andrea De Benedetti. Dice in sintesi l’autore, 51 anni, linguista: va bene il «linguaggio inclusivo», ma l’esasperazione rischia di generare mostri e di trasformarsi in ricatto morale verso chi non si allinea. Usare quel segno a forma di «e» rovesciata diventa un obbligo quasi etico, imposto come vessillo del politicamente corretto nel nome del rispetto di ogni minoranza. Il libro è così presentato: «Il linguaggio inclusivo è un’idea seducente. Tuttavia il cuore del problema sta quasi sempre altrove. Perché i significati sono più importanti dei significanti. Perché includere certe categorie può significare escluderne altre. E perché le buone pratiche, ove fondate sul ricatto morale, rischiano seriamente di convertirsi in cattive regole».

Ma che cos’è lo scwha? È un carattere dell’Alfabeto Fonetico Internazionale (IPA), il sistema che viene utilizzato per definire la corretta pronuncia delle migliaia di lingue scritte che esistono nel mondo. È da collocarsi nel mezzo di tutto il sistema di vocali e la sua pronuncia è un suono indefinito. Il simbolo che definisce lo schwa è simile a una «e» rovesciata, «  ».

Tra le prime a parlare dello «schwa» in Italia è stata Vera Gheno, sociolinguista specializzata in comunicazione digitale nonché conduttrice di Linguacce, trasmissione radiofonica in onda su Rai Radio 1. «Lo schwa, dal punto di vista semantico, può funzionare come genere indistinto, perché indica un suono che sta al centro del rettangolo delle vocali, quindi è neutro come pronuncia: la vocale media per eccellenza. Per questo, mi sembrava particolarmente adatto a indicare un genere indistinto», ha detto Vera Gheno durante un’intervista. Il suo, però, non vuole essere un tentativo di teorizzazione o una proposta strutturale ma «un modo per richiamare l’attenzione su un’istanza». Lei stessa, infatti, chiarisce che «nessuno sano di mente ha mai detto: “Aboliamo i generi e usiamo il genere indistinto”. Però ci sono persone che si sentono a disagio con il fatto che l’italiano ha solo maschile e femminile».

Andrea Debenedetti mostra non poche perplessità: «Fin dagli anni Ottanta studiose come Alma Sabatini hanno posto il problema della rappresentanza femminile nella lingua. Come declinare al femminile cariche e professioni: “avvocatessa” o “avvocata”? Come superare il cosiddetto “maschile sovraesteso” o “maschile non marcato” per indicare una collettività mista? Viene di lì lo sdoppiamento in formule oggi comuni come “cittadine e cittadini”. Il problema sorge quando si vuol dare rappresentanza a persone e comunità “non binarie”, che non si riconoscono in alcuno dei due generi. Lo schwa istituisce una terza desinenza. Reintroduce in sostanza il genere neutro nella lingua italiana… Lo schwa è sconosciuto a molti dialetti. Non è presente nell’italiano standard. Suscita un effetto straniante in chi parla e in chi ascolta. La lingua parlata nasce sempre prima di quella scritta, e la pretesa di impiantarlo nella lingua scritta senza prima farlo transitare dalla lingua parlata è una cosa innaturale, una forzatura che inverte la priorità ontologica del parlato rispetto allo scritto. E poi in chi vuole imporlo c’è un atteggiamento ideologico e anche un po’ ricattatorio».

Andrea Debenedetti è convinto che la lingua sia anche uno strumento potente che cambia le cose, ma che sia uno strumento infinitamente più complesso delle componenti che ne costituiscono l’ossatura. La lingua, qualsiasi lingua, è fatta di contesti, di relazioni, di necessità. Molto del cosiddetto «Politicamente corretto» invece finisce per trasmettere un messaggio che è: «iniziamo dal lessico e poi tutto il resto verrà». E invece no. Bisogna iniziare da altro, risolvere le diseguaglianze, e poi il lessico verrà di seguito. 

Sono le parole che cambiano il mondo o viceversa? Nomina sunt consequentia rerum è una frase latina il cui significato letterale è «i nomi sono conseguenti alle cose»; è un’espressione che deve la sua notorietà soprattutto al fatto che fu citata da Dante Alighieri nella Vita Nuova (XIII, 4). Oggi abbiamo il compito di “dialogare con il linguaggio” aiutandolo a evitare parole espulsive che costruiscono capri espiatori oppure che svalutano o ignorano categorie specifiche già messe a dura prova dalla storia. È la Storia che crea le parole.