Ed ecco che improvvisamente, dopo esserci scambiati sorrisi ed abbracci, i toni fra svizzeri ed europei si alterano di nuovo, politici e governanti (elvetici) parlano furiosamente di ricatti e contromisure. Ce n’era davvero bisogno, ora che si era elegantemente riusciti ad aggirare l’ostacolo del voto del 9 febbraio 2014 contro l’immigrazione di massa, quindi a disinnescare una mina per gli accordi bilaterali?
Qualunque sia il giudizio, la diatriba sorta attorno al fatto che la Commissione europea ha limitato ad un anno il riconoscimento dell’equivalenza della Borsa svizzera, in attesa di sostanziali progressi nei negoziati su un accordo quadro istituzionale, imprime al 2018 il timbro di anno decisivo nelle relazioni con l’Europa.
Forse, dal nostro ombelico alpino non cogliamo lo spirito di quel che sta succedendo all’interno dell’Unione europea, da poco scampata ad una crisi quasi letale dell’euro, all’indomani della Brexit e con i grattacapi provocati dai recalcitranti membri orientali (con Polonia e Ungheria in testa a violarne i fondamenti legali e morali): a Bruxelles e nelle capitali che contano c’è una forte volontà di riaffermare i fondamenti dell’Unione, di mostrare i muscoli. Quindi, non c’è da stupirsi se l’UE fa sentire il suo peso, tanto più davanti a politici elvetici molto sicuri di poter pretendere fantastiche concessioni sulla base di non si sa bene quale forza negoziale.
La posizione della Commissione europea è nota: da quando il Consiglio federale ha ritirato la domanda di adesione all’Ue, Bruxelles vuole una cornice giuridica chiara nelle relazioni con la Svizzera. Ma il presidente Jean-Claude Juncker e i suoi colleghi devono avere percepito che l’accettazione politica di un accordo istituzionale che preveda un’interferenza giuridica esterna (i «giudici stranieri») è attualmente molto bassa, in Svizzera, nonostante il Consiglio federale si sia posto l’obiettivo di trovare un accordo entro il 2018 (scadenza non vincolante). Stanca di attendere, la Commissione ha deciso di fare pressione: vincolando il riconoscimento definitivo dell’equivalenza della Borsa svizzera a progressi verso un accordo quadro.
Un passo sproporzionato? Un ricatto? Un vincolo improprio? Ma, scusate, non erano stati importanti esponenti borghesi, a partire dalla presidente del PLR Petra Gössi, a voler vincolare il «miliardo di coesione» alla cancellazione della «clausola ghigliottina» che grava sugli accordi bilaterali 1 (ne decade uno, per esempio quello sulla libera circolazione, decadono tutti), ma anche ad un libero accesso ai mercati finanziari europei? Non era stata l’UDC a parlare di ulteriore regalo all’Ue che andava combattuto in parlamento? Non c’è molto da stupirsi se poi chi di vincoli ferisce di vincoli perisce.
Anche il Consiglio federale si è fatto contagiare da questa atmosfera pugnace, Doris Leuthard ha spontaneamente vincolato il «miliardo di coesione» al riconoscimento dell’equivalenza della Borsa svizzera, forse convinta di poter mostrare i muscoli verso il pubblico nazionale ma chiedendo in fondo una cosa scontata al suo amico Juncker. Si è sbagliata. Primo, perché nelle relazioni internazionali non esistono amici. Secondo, perché quando si è un paese piccolo ci si può fare male a mostrarsi più forti di quel che si è di fronte ad un partner molto più grande. Tuttavia, il Governo resta in modalità pugnace, minacciando di rimangiarsi la parola sul «miliardo di coesione». Ma, come ha ricordato l’ex diplomatico svizzero Max Schweizer, il granito su cui gli avversari si sarebbero dovuti spaccare i denti, nella lotta sul segreto bancario, si è poi rivelato essere un formaggio appenzellese (TA, 20.12.17). La Storia a volte insegna i giusti limiti.