La mossa di Trump è incomprensibile. Soprattutto perché fatta senza avere nulla in cambio. Riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele poteva avere un senso se Netanyahu avesse dato qualcosa come corrispettivo: un piano di pace, il blocco degli insediamenti, un segno di buona volontà. Nulla di tutto questo è accaduto. L’unica conseguenza della scelta del presidente americano è il riaccendersi di una tensione che cova come il fuoco sotto la cenere. Altri scontri, altri morti.
La questione palestinese è intatta. In questi anni Netanyahu ha vinto le elezioni promettendo di non risolverla. L’ultima volta, in ritardo nei sondaggi, ha rimontato proprio annunciando che con lui non sarebbe mai nato uno Stato palestinese. Come a dire che si sarebbe andati avanti con i muri, i soldati, i check-point, lo stillicidio di vite. Dall’altra parte, Abu Mazen ha compiuto un estremo tentativo di riprendere il controllo della situazione, ma di fronte ha un nemico interno, Hamas, forte della vittoria russo-sciita in Siria, che ha rafforzato l’asse Teheran-Damasco-Beirut-Gaza.
Nel gennaio 2005 andai a raccontare per il «Corriere» la prima elezione di Abu Mazen. L’atmosfera era carica di speranza. La morte di Arafat lasciava credere che qualcosa poteva cambiare davvero. Andai nei campi profughi, vidi all’ingresso centinaia di chiavi che non aprivano più alcuna abitazione: al posto delle case abbandonate dagli arabi ora magari c’erano autosaloni, negozi di telefonini, caserme dell’esercito israeliano. Ogni baracca aveva fotografie alle pareti: i martiri del terrorismo, giovani che si erano fatti saltare in aria senza alcuna speranza, con l’unico risultato di accumulare altro sangue, altro dolore, altro rancore. Qua e là le ruspe israeliane stavano abbattendo le case dei genitori di un kamikaze.
Sono sempre andato in Israele nei momenti di speranza. La prima volta che entrai nella Gerusalemme vecchia era il 1993. Era notte, ero con un gruppo di pellegrini, la porta di Damasco sembrava il cancello del paradiso. Era l’anno di Oslo, grazie a Rabin la pace pareva davvero a portata di mano. Una pattuglia di soldati israeliani sorvegliava la casa di Sharon che aveva issato la bandiera con la stella di David in mezzo agli arabi: i soldati stessi ne parlavano come di un estremista che rappresentava una sensibilità esistente ma minoritaria. Due anni dopo Rabin venne assassinato. Tornai nel 1999, al governo c’era Barak, un soldato che alla pace credeva. Nel 2003 il lavoro mi riportò a Gerusalemme: premier era Sharon, che però non era più considerato un estremista, anzi il ritiro da Gaza da lui voluto accese grandi speranze, oltre all’opposizione dei coloni.
Tornai l’ultima volta nel 2005, appunto in occasione dell’avvento di Abu Mazen, considerato l’uomo del dialogo. Si pensò che, tolto di mezzo il leader degli anni del terrorismo, l’accordo sarebbe stato possibile. Non è andata così. Ricordo di quei giorni un’intervista con il grande storico Benny Morris, preveggentemente pessimista, e l’incontro con il cardinal Martini. Entrai nella sua stanza, fuori le mura della città vecchia, mentre uscivano i padri e le madri del «Parent’s Circle», un’associazione sostenuta da Martini che faceva incontrare i genitori delle vittime dello scontro, israeliani e palestinesi insieme. Un segno di pace prezioso, una delle tante speranze che non hanno ancora dato frutto.
Purtroppo, l’impressione è che alla pace non creda ormai più nessuno. Ci siamo illusi che sarebbe giunta con un trattato, poi per sfinimento. Ma non è arrivata in nessuno dei due modi. E certo non arriverà con Trump.