Che lo sport induca a tolleranza e condivisione

/ 15.08.2022
di Giancarlo Dionisio

Noi media siamo spesso portati a stigmatizzare alcune derive dello sport d’élite. Lo è, di conseguenza, anche la «vox populi», trascinata da noi maliziosi in questo vortice di dubbi e di perplessità. Come non indignarsi di fronte a certi compensi inimmaginabili per un comune mortale? Come non inorridire di fronte alle truffe, al doping, alla violenza, ai corpi martoriati dall’eccesso di abnegazione? Salvo poi rubacchiare furtivamente un pugno di cenere dal camino, e cospargerci il capo, quando due ragazzi di 25 e 23 anni, in sella a una bicicletta, si rendono protagonisti di un gesto che è diventato virale nel web e nelle tv di tutto il mondo.

Il più anziano si chiama Jonas Vingegaard. Fino a pochi anni or sono aiutava i genitori al mercato del pesce, in un villaggio della Danimarca. Poche settimane fa ha addomesticato la Grande Boucle ed è salito in alto, sugli Champs-Elysées. Il più giovane è lo sloveno Tadej Pogacar. È un predestinato. Un piccolo re Mida del ciclismo. Abituato a vincere. Anzi, a dominare.

Lo Sloveno, il Tour de France lo aveva fatto suo nel 2020 e nel 2021. Si pensava fosse avviato verso un facile tris. Poi, sulle Alpi, il primo cedimento, la prima crisi. Vingegaard mette la freccia. La maglia gialla è sua. È lui la lepre. Tadej, il cacciatore. E che caccia. Che inseguimento. Vibrante, rovente, appassionante. Pogacar ci prova e ci riprova. Una, due, dieci, venti volte. Jonas resiste. Non molla. Gli si incolla alla ruota posteriore. Appena può lo guarda intensamente negli occhi. Quasi a volergli dire: sono qui, non ti lascio andare! Una delle ultime occasioni per il sorpasso la offrono i Pirenei, a pochi giorni dall’arrivo a Parigi. Tadej ci crede. O almeno lo fa credere. Gli altri – anche i fenomeni come il vincitore del 2018 Geraint Thomas – sono semplici comparse.

Davanti restano in due: Jonas e Tadej. Tadej e Jonas. Lo Sloveno tenta l’impossibile. Anche in discesa. Scivola in curva. I pantaloncini si squarciano. Così come il morale. Il danese non si accorge subito. Prosegue. Poi, quando prende coscienza dell’accaduto, rallenta. Lo attende. Tadej sopraggiunge. Tende la mano al rivale. Clic. Immortalati per la storia. Per l’épica di un Tour già di per sé commovente.

I soliti maligni sostengono che il gesto era calcolato. «Tanto non sarebbe andato lontano». C’erano 39 gradi. Dall’asfalto ne salivano almeno dieci in più. I due si stavano prendendo a «bastonate» da due settimane abbondanti. Erano al limite dello sfinimento. Nemmeno Belzebù avrebbe avuto la lucidità per calcolare un gesto che a me è parso autentico e spontaneo. Che ci serva da esempio. Per apprendere il rispetto degli avversari. Per assimilare e accettare anche la cultura della sconfitta. Per ascoltare ed eventualmente mettere serenamente in discussione opinioni diverse dalle nostre.

Lo sport di punta è avaro di storie simili. Quello popolare è più generoso, anche se ultimamente l’intolleranza sembra attanagliare anche chi si batte per un salame, una bottiglia di vino e una pacca sulla spalla. Ma questa è un’altra storia. Magari, un giorno, la racconteremo.