Non sono tempi che inducono all’acquisto di un capo d’abbigliamento. Oggettivamente, mancano le occasioni per indossarlo e mostrarlo. Per non parlare del risvolto morale: un altro cashemire o un nuovo paio di sneaker rischia di gravare sulla nostra cattiva coscienza di consumatori, incapaci di resistere alle tentazioni. Che, per la verità, scarseggiano. Proprio alle soglie dell’autunno, quando coprirsi diventa necessità e in pari tempo virtù, sembra latitante la moda, per così dire ufficiale. Quella che, attraverso personalità dotate di autorità creativa, è in grado d’imporre fogge, tessuti, colori, accessori a un pubblico, pur sempre disponibile al nuovo. A questo punto, per colmare il vuoto è giocoforza ricorrere al recupero del passato. E, una volta ancora, ci si affida a Coco Chanel, di cui il 10 gennaio 2021 ricorreva il cinquantesimo della morte.
Qui si deve parlare di un caso a parte, senza paragoni nella storia del costume moderno. Diversamente da tanti suoi illustri colleghi, dall’inglese Worth, il primo a fregiarsi del titolo «couturier», a Schiapparelli, Lanvin, Dior, Valentino, e via enumerando grandi sarti e stilisti consegnati al passato, le sue invenzioni rimangono attuali. Più che mai in questa stagione anomala, priva di novità sollecitanti, la «sua» giacca profilata di passamaneria, con i bottoni dorati, continua a essere un oggetto di desiderio, accessibile e lusinghiero. La si ritrova, sia nelle boutiques sia nei supermercati, Migros compresa, in versioni diverse, però sempre fedeli all’inconfondibile originale: che ne decretò un successo sfociato nel mito. Dietro il quale c’è una vicenda personale, persino intima, che s’intreccia con le vicende pubbliche, culturali e politiche che segnarono il primo e il secondo dopoguerra.
Sembra una fiaba a lieto fine, la vita di Gabrielle Bonheur Chanel, sin qui raccontata. Nata nel 1883 a Saumur, da genitori venditori ambulanti, orfana giovanissima, si reca a Parigi, allora la capitale, per definizione più aperta a talenti e precursori. E Coco lo è, a pieno titolo. Reagisce prontamente agli stimoli del momento: modista di successo, si appassiona per il teatro, crea i costumi per i balletti russi di Serge Lifar, ascolta, legge e, non da ultimo, si rivela una femminista fuori schema concretamente: libera la donna da corsetti, gonne e mantelle ingombranti, proponendo completi in jersey, una primizia, costumi da bagno, pantaloni. Nasce, così, lo stile che interpreta una femminilità disinvolta, dinamica, al riparo da eccessi e volgarità.
Sin qui, la vita intraprendente e coraggiosa di una ragazza, venuta dal nulla, sembra meritare biografie, magari al limite dell’agiografia. Ma ecco che, nel 2011, il giornalista americano, Hal Vaughan, osa buttare all’aria questo mito di dimensioni mondiali, popolarissimo soprattutto in USA: con un libro dal titolo stuzzicante Sleeping with the Enemy, Coco Chanel’s Secret War. Sono pagine in cui si denuncia la realtà nascosta di una Coco, che avrebbe collaborato con l’«intelligence» tedesca. Accuse fondante o infondate che siano, la pubblicazione non influì sul successo dello stile Chanel. Ha, comunque, aperto un «buco nero», nel curriculum della stilista: una parentesi che ci concerne, come svizzeri. Infatti, dal 1945 al ’53, trascorse un esilio volontario, da taluni definito prudente, a Losanna. E decise di farsi seppellire nel cimitero di Bois-de-Vaux, in una tomba da lei disegnata, accanto a quella di un’altra celebrità, Pierre de Coubertin, il fondatore delle Olimpiadi.
Sulle motivazioni di questa prolungata vacanza in terra elvetica si sprecano, ovviamente, svariate congetture. Forse con l’alto ufficiale della Wehrmacht fu soltanto la scappatella di una notte o, invece, un rapporto compromettente. Fatto sta che, Chanel tornò alla ribalta, sostenuta dalla pubblicità e dal consenso popolare. Con effetti persino spassosi. Totti ha chiamato la figlia Chanel.