È da inizio primavera che rimugino una teoria sulla prima fase di contagi di Covid-19 e sul perché il virus abbia scelto di colpire duramente l’area dei laghi prealpini: dal bacino del Garda a quello del Verbano, toccando le punte meridionali dell’Iseo, del Lario e del Ceresio. Leggendo ogni giorno i diversi livelli di virulenza che il Coronavirus stava imponendo, ho iniziato a chiedermi: come mai in Ticino, pur avendo avuto la capacità di allestire un servizio sanitario efficiente e nonostante un tempismo spinto sino a sfidare addirittura le fondamenta del federalismo elvetico, i numeri dei decessi risultano così elevati rispetto a regioni vicine? Per un rapido confronto, ricordo alcuni dati impressionanti di quei giorni. Mentre nella provincia di Como, con quasi il doppio degli abitanti del Ticino, la pandemia aveva fatto segnare sino ad allora (2 aprile) 26 morti, da noi erano già oltre 150; a Varese, che conta quasi il triplo di abitanti rispetto a noi, le vittime erano «solo» 80. Sempre scorrendo e confrontando i numeri risultava anche un’altra anomalia: delle regioni italiane confinanti con noi la più colpita era la provincia piemontese di Verbania Domodossola che, con 30’000 abitanti, sempre il 2. aprile, lamentava 50 morti.
Convinto che le mie congetture potessero interessare anche altri, e con la recondita speranza di trovare ulteriori supporti (ma pronto anche a ricevere smentite) pensai di inviarle al Corriere del Ticino. Il direttore però non se la sentì di pubblicarle. Non escludo possibili superficialità del mio testo, ma ho subito pensato che il cortese rifiuto fosse dettato dal fatto che in quei giorni, anche a Muzzano come in tutte le redazioni dei media mondiali, di sicuro erano confrontati con valanghe di interventi tutti collegati con il progredire del coronavirus o da una serie di teorie meno empiriche e più scientifiche, rispetto alle mie. Il diniego era comunque accompagnato da una pertinente esortazione: «Lasciamo che siano gli scienziati a parlare di queste cose».
Il mio ragionamento era nato da una notizia, letta sulla rivista «Economist», che collegava percorso e focolai dei contagi da Covid-19 in Italia con l’inquinamento dell’aria e in particolare con la presenza di polveri sottili (PM10 o particolato). Quella indicazione mi portava a credere che anche l’elevato numero di morti che il Ticino stava registrando potesse avere un legame con la lunga e disattesa sequela dei superamenti dei limiti di ozono e di polveri fini che da decenni vede il Mendrisiotto fare da imbuto alla rete delle autostrade lombarde che arrivano sino al Basso Ceresio (lasciando ai margini Como e Varese). Dato però che sul fronte cantonale conteggi e informazioni sulla situazione sanitaria erano sì esaustivi, ma anche ripetitivi – solo contagi nuovi e decessi, suddivisioni per classi di età, pazienti ricoverati e intubati, assenza di indici di contagio e di indicazioni sui comuni di residenza delle vittime –, nel mio scritto arrivavo a ipotizzare una preponderanza di morti nel Mendrisiotto basandomi però solo... sugli annunci funebri dei quotidiani, condizionato forse dall’aver perso parenti e conoscenti in quel distretto.
Se oggi ritorno sulle mie congetture è per rendere conto di nuovi e più autorevoli pareri. Il primo è del prof. Leonardo Setti dell’Università di Bologna, autore di una ricerca sulla correlazione tra i superamenti dei limiti per il PM10 e il numero di ricoveri da Covid-19. Ebbene, «tali analisi sembrano dimostrare che, in relazione al periodo 10-29 febbraio, concentrazioni elevate superiori al limite di PM10 in alcune province del Nord Italia possano aver esercitato un’azione di “boost”, cioè di impulso alla diffusione virulenta dell’epidemia, che non si è osservata in altre zone d’Italia che presentavano casi di contagi nello stesso periodo». Analoga conferma, più recente, anche da una ricerca inglese condotta dal prof. Matthew Cole, dell’Università di Birmingham, secondo la quale l’esposizione a lungo termine delle persone alle particelle di inquinamento «aumenta le infezioni e i ricoveri di circa il 10 per cento, e le morti del 15 per cento».
Infine nei giorni scorsi alcuni esperti internazionali riuniti in Italia dall’istituto farmaceutico Menarini hanno escluso che il particolato atmosferico possa «veicolare» il virus, quindi anche l’ipotesi di un diretto coinvolgimento dello smog nell’escalation dei contagi; hanno però confermato che gli effetti negativi dello smog sull’organismo contribuiscono a determinare prognosi più sfavorevoli per chi è più esposto all’inquinamento. Certo, non sono ancora prove scientifiche. Ma il quadro che ne esce presenta già una conferma importante: se la nostra salute è sempre più minacciata dai virus è anche perché le attuali legislazioni sull’inquinamento della nostra aria e i tentennamenti nel farle rispettare non ci consentono di vivere in un ambiente sano.