Mi ha colpito molto assistere al giuramento del presidente della Repubblica. Come da abitudine, tutto si è svolto in un’atmosfera, se non solenne, seria; tanto più che a giurare era, per la seconda volta, una personalità della statura di Sergio Mattarella. I parlamentari avevano tirato un sospiro di sollievo rieleggendolo e ora si congratulavano l’un l’altro, felici. La riconferma di Mattarella è un elemento di stabilità ed equilibrio per il sistema, ma è stata il frutto anche di altre motivazioni, non tutte così nobili. Non è solo l’indennità da riscuotere sino all’ultimo e la pensione da maturare. I «peones» – i parlamentari semplici – hanno alzato un fuoco di sbarramento contro i «tecnici», confermando di essere prigionieri di un’idea un po’ invecchiata della politica e dimenticando che, quando arrivano i professori, è perché i professionisti hanno fallito.
Forse i politici sottovalutano il discredito che ancora li circonda, anche perché non sono stati scelti dai cittadini, bensì designati dai capi partito. Come ha fatto notare Massimo D’Alema, i parlamentari non si sono conquistati il seggio sul territorio, tra la gente, ma nell’ufficio o più spesso nell’anticamera del segretario. Questo toglie loro credibilità e fa crescere la nostalgia dei collegi uninominali – quelli da centomila elettori previsti dalla legge che porta il nome di Mattarella, non quelli troppo grandi imposti dalle norme in vigore – dove chi ha un voto in più viene eletto e rappresenta una comunità che può confermarlo o sostituirlo. Ma la direzione che ha imboccato la politica non va verso i collegi uninominali e il sistema maggioritario, introdotto con il referendum popolare del 1993. Al contrario, molti partiti hanno nostalgia del proporzionale, come nella Prima Repubblica. Un tempo in cui però esistevano luoghi di selezione della classe dirigente: sezioni, scuole, amministrazioni locali.
Oggi i partiti sono spappolati. Divisi in correnti e in gruppi digitali che usano l’uno contro l’altro i più sporchi trucchi della Rete. E già questa tribalizzazione della politica non è una buona notizia. Ma ce n’è una peggiore. La fine delle coalizioni sembra negare all’Italia la sorte delle democrazie avanzate: l’alternanza al Governo di progressisti e conservatori. Già nella Prima Repubblica abbiamo sperimentato l’ammucchiata al centro, la cooptazione di varie forze attorno a un partito, la Dc, condannato a governare. Il risultato fu la crescita di clientele, malaffare, spreco di denaro pubblico, finanziamento illegale. Davvero si ha nostalgia di tutto questo? Davvero la stagione di «Mani pulite» è esaurita solo dal ricordo dei metodi spregiudicati di alcuni Pm? Non fu anche un periodo in cui dalla società si levava una richiesta di rinnovamento, di partecipazione, di buona politica? Qualcuno pensa davvero che le Camere oggi abbiano fornito una risposta convincente a quella domanda? L’alternanza presuppone il ritorno delle coalizioni e la tenuta del sistema maggioritario. Ma è inutile costruire alleanze tra partiti che la pensano diversamente su tutto.
Da tempo molti ripetono che all’Italia serve un centrodestra moderno ed europeo. È ancora più vero adesso che la pandemia ha cambiato il mondo; ha chiuso l’era del populismo e ha aperto un’epoca diversa, in cui l’Europa accetta di fare debito condiviso, in Germania i socialdemocratici rivendicano l’eredità di Merkel, Trump perde le elezioni e pure Johnson si sente poco bene. Non è uno spostamento a sinistra; è la fine dell’illusione sovranista. Davvero il centrodestra italiano pensa che il futuro appartenga ancora agli Orban e ai Kaczyński? Non è il momento di dare rappresentanza ai moderati, ai liberali, ai cattolici, ai ceti produttivi oppressi dal fisco e dalla burocrazia, agli imprenditori per cui l’Europa è un mercato e un destino comune? La sconfitta per il sistema politico non è rieleggere Mattarella e appoggiare Draghi. La sconfitta sarebbe non riuscire, tra un anno, a proporre al Paese alleanze, idee e candidati decenti, in cui gli italiani possano riconoscersi. Molto dipende da Matteo Salvini. Il leader della Lega è a un bivio: continuerà a flirtare con i Governi illiberali dell’est o porterà il suo movimento nel partito popolare europeo, facendone una moderna forza conservatrice?