A Lugano, alla vigilia del rinnovo dei poteri comunali, è riscoppiata la questione del centro autogestito giovanile, ora collocato nell’ex-Macello, un’area pregiata che certamente fa gola ai costruttori. Tra le parti sono volate parole grosse, con il Municipio, ma non all’unanimità, deciso questa volta a sgomberare l’area per mano della polizia. Archiviate le elezioni, si preme per una conciliazione, per un dialogo che spiani la via a una soluzione condivisa. Il fronte degli intransigenti continua tuttavia ad invocare le maniere forti: sono voci che spesso provengono da quello stesso movimento politico che nei suoi primordi non ha esitato a violare il principio di legalità.
Come mai un polo urbano ora «grande» come Lugano non è riuscito negli anni a far pace con i giovani dissidenti che la abitano? Sono pochi, d’accordo, ma non per questo meritano giudizi sprezzanti o alzate di spalle, come tara di un organismo che si autoreputa bello fuori e sano dentro. Probabilmente questo succede perché, al di là dei primati di cui mena vanto, la città non si capacita di ospitare nel suo seno una cellula diversa, irregolare, non allineata con il cartellone culturale tradizionale ampiamente sostenuto da contributi pubblici e privati. Insomma, non si è mai rassegnata all’idea di dover fare i conti con una minoranza che si dichiara estranea alle categorie di cui si nutre la politica culturale cittadina.
Non siamo dinanzi a un fenomeno originale. In Svizzera i primi conflitti sull’opportunità o meno di fondare un centro autonomo giovanile («AJZ») non ai bordi estremi delle conurbazioni affiorarono sul finire degli anni Settanta del secolo scorso. Allora le autorità, per soddisfare i bisogni dei giovani, ritenevano sufficiente sovvenzionare ostelli e impianti sportivi. Nessuno immaginava che nelle pieghe del tessuto urbano potessero formarsi isole in grado di raccogliere un’eterogenea e varia umanità non riconducibile alle agitazioni del ’68. I contestatori vecchio stile si erano ridotti a sparuta frangia. I più si dicevano allergici alle astruserie ideologiche, alle teorie dei francofortesi, tanto raffinate quanto incomprensibili. Semmai traevano ispirazione dal pensiero anarchico-dadaista, agli sberleffi degli indiani metropolitani del ’77 italiano, al moto anticonformista che aveva accompagnato la nascita delle radio libere.
Fu così che nell’estate del 1980 la rivolta esplose a Zurigo, epicentro dei disordini, per poi allargarsi a Basilea, Berna e Losanna: una lotta senza quartiere con le forze di polizia, equipaggiate con manganelli, scudi, lacrimogeni e micidiali proiettili di gomma, in grado di cavare un occhio. Tumulti del genere non si erano mai visti nell’«ubbidiente e paciosa Elvezia», osservò la stampa internazionale, sorpresa da tanta brutale violenza. La guerriglia andò avanti, tra alti e bassi, per alcuni anni, finché entrambi gli schieramenti non decisero di deporre le armi e di stipulare una tregua, ossia riesaminare le condizioni per finalmente veder nascere un centro autogestito, non definito e controllato da una centrale amministrativa.
Ciò che sbalordiva e risultava inconcepibile era quest’improvvisa eruzione di violenza nella city della finanza e del lusso ostentato, un fenomeno che indusse le autorità federali a chiedere lumi alla Commissione federale per la gioventù, presieduta dal ginevrino Guy-Olivier Segond. Un primo rapporto uscì nel dicembre del 1980, suscitando reazioni opposte. Per gli uni aveva il merito di andare oltre le apparenze e di scavare nel disagio giovanile, per gli altri di giustificare eccessivamente atteggiamenti qualificabili solo come teppismo. Istruttivo, ancora oggi, è tornare sulla polemica che vide duellare due filosofi, Jeanne Hersch ed Erich Saner: entrambi allievi di Karl Jaspers, giunsero a conclusioni opposte. Hersch insistette sulla deriva nichilista degli adolescenti ribelli, Saner sulle pulsioni creative e libertarie che animavano gli autonomi, irriducibili agli schemi del pensiero dominante.
Non è che, quarant’anni dopo, le tensioni siano rientrate. Da quella stagione sono tuttavia nate iniziative che a Zurigo (Rote Fabrik), Berna (Reithalle) e Basilea (Kaserne) si sono acclimatate, arricchendo l’offerta culturale con proposte, appunto, alternative. È quanto si vorrebbe vedere anche a Lugano, ossia la costituzione di uno spazio in cui sia possibile sperimentare una sorta di «anti-Lac». Non un ghetto, ma un luogo aperto alla cittadinanza, di ogni età, origine e condizione sociale. La grande Lugano dovrebbe finalmente collocarsi in una dimensione che sia all’altezza delle sue ambizioni di polo quasi metropolitano. Ma anche gli autonomi devono aprirsi alla società e guadagnarsi il consenso e le simpatie del pubblico con uno stimolante calendario underground.
Centro autonomo: la lezione degli anni Ottanta
/ 10.05.2021
di Orazio Martinetti
di Orazio Martinetti