L’ultimo, di cui abbiamo fatto la conoscenza in queste settimane, è l’olio di palma. E per forza di cose. Il suo nome ci è familiare: compare, ormai, sulle confezioni di un numero crescente di prodotti alimentari e cosmetici, affiancato però alla preposizione «senza» che, qui, assume il significato di garanzia. Di questi biscotti, salatini, gelati, pasticcini, come pure saponi, creme per il viso e detersivi, ci si può fidare: sono, privi di un ingrediente sotto processo. Qual è l’olio di palma, che deve rispondere di due reati: uno d’ordine sanitario e uno d’ordine ambientale. Infatti, per via del suo alto contenuto di grassi saturi è ritenuto responsabile di malattie cardiovascolari. D’altro canto, la forte richiesta da parte dell’industria contribuirebbe all’eccessivo ampliamento delle piantagioni, deforestando i territori. Ora, che c’è di vero in queste incriminazioni che, comunque, stanno facendo notizia?
In proposito, si ricalca il solito cliché: fa stato l’allarme, che preannuncia un pericolo, suscitando nell’opinione pubblica paure immediate e contagiose, e invece sembrano non lasciare traccia le smentite, con cui si cerca di riportare la minaccia entro limiti realistici. Una volta di più, la fantasia pessimista ha il sopravvento sulla concretezza dimostrabile. Di conseguenza, scivolano via le dichiarazioni dei ricercatori scientifici dell’Istituto Mario Negri di Milano, secondo i quali «non è stata confermata neanche una correlazione fra assunzione di acidi grassi saturi e maggiori rischi di malattie cardiovascolari». Ed è finito nel dimenticatoio il caso Nutella, conclusosi, lo scorso anno, con un nulla di fatto. L’allora ministro francese dell’ecologia, Ségolène Royal, che aveva denunciato l’eccessivo contenuto di olio di palma nel popolare prodotto, dovette ricredersi.
Del resto il fenomeno di quest’incessante rimbalzo di accuse e smentite, di fa bene o fa male, soprattutto in ambito alimentare, rispecchia gli umori di un’epoca che ha riscoperto e forse esasperato la cultura del cibo, nei suoi diversi aspetti. Compreso quello salutistico. Si tratta, quindi, di identificare le proprietà di alimenti che possono diventare un nuovo nemico in tavola. O al contrario, un eventuale amico. Ed è un settore scientifico, o parascientifico, che giustifica dubbi di credibilità.
Non di rado, si assiste, da un giorno all’altro, a un totale rovesciamento di ruoli. Ecco il cioccolato, condannato ai tempi della mia lontana gioventù, adesso riabilitato per imprevedibili virtù terapeutiche. Sorti alterne anche per il caffè, eccitante per definizione, a cui adesso si attribuisce, figurarsi, un effetto protettivo dall’Alzheimer. In pratica, ogni cibo, persino quelli basilari tipo latte, farina, pane, e via dicendo, potrebbe nascondere un’insidia: che i media, e si pensi a «Patti chiari» della RSI, s’impegneranno a rivelare e documentare. Riservando autentiche sorprese.
Capita di leggere, su pagine autorevoli come «Repubblica» che, «il formaggio causa dipendenza come una droga». Mentre la pizza, caposaldo della dieta mediterranea, può provocare «una pericolosa dipendenza»: in che modo, per ora non si sa. Paradossalmente, persino i prodotti light sono nel mirino degli igienisti: non mantengono le loro promesse. Al pari delle vitamine e degli integratori di cui, negli ultimi anni, si denuncia l’inutilità. Si tratta, in fin dei conti, di crederci o non crederci, cioè dell’atteggiamento del cittadino, oggi più che mai sensibile alle raccomandazioni e alle ricette concernenti la salute sua e dell’ambiente.
Non si fermerà, quindi, la lunga marcia alla ricerca del nemico di turno, avviata negli anni 70, quando in Svizzera scoppiò la polemica del burro: da sostituire, secondo gli igienisti, con la più sana margarina. Facendo, ovviamente, infuriare i produttori del settore latte e derivati. Successivamente, sul piano ambientale, si paventavano le minacce nell’ozono, dell’effetto serra, della desertificazione. Oggi dimenticati, o meglio sostituiti da altri nemici di turno, reali, probabili o fittizi.
Sebastiano Vassalli, lo scrittore e linguista scomparso di recente, fu il primo a parlare di «catastrofismo», dietro il quale risiede la paura che, in forma a volte scaramantica, ci accompagna tutta la vita. Temendo il peggio che forse non verrà.