C’è chi dice no

/ 18.10.2021
di Aldo Grasso

Qual è la spinta psicologica profonda che porta una persona a negare le realtà evidenti dell’epidemia di COVID-19? È un classico meccanismo di difesa legato alla paura, che la psicoanalisi – la disciplina che l’ha studiato più di ogni altra – definisce «diniego psicologico».

Indicate come complottiste e negazioniste, con una forte connotazione antiscientifica, queste persone rappresentano un fenomeno rilevante, complesso, presente in tutto il mondo, che va studiato sia dal punto di vista sociologico che della comunicazione. Il comune denominatore è l’utilizzo massiccio degli strumenti digitali che la rete mette a disposizione, facilitando la condivisione di contenuti, spesso virali, e di fake news.

L’ultima testimonianza in ordine di tempo arriva dagli Stati Uniti. «La cosa più tragica è vederli morire increduli», ha raccontato Jodi Doering, infermiera di un ospedale del South Dakota intervistata dalla Cnn. L’operatrice sanitaria ha proseguito: «Continuano a dire che il virus non esiste anche mentre li sta uccidendo. Le loro ultime parole a volte sono: “Dimmi la verità, che malattia ho?”». Una testimonianza, quella della Doering, che si unisce a quella di altri sanitari che si imbattono nello scetticismo di chi curano e tentano di salvare.

Nonostante a oggi siano quasi 237 milioni i contagi nel mondo e quasi cinque milioni le vittime causate dalla pandemia (dati OMS. Fonte: Health Emergency Dashboard, Ottobre 2021), sono ancora molte le persone che negano l’esistenza del Coronavirus.

Com’è possibile una situazione del genere? Secondo lo psicologo Alessandro Pejrano, «se a questa modalità, per certi versi grottesca, viene naturale attribuire il senso della stupidità umana, addentrandosi in essa, è possibile cogliere aspetti importanti per la salute. Con molta probabilità questi pazienti, che potremmo definire sommariamente negazionisti, stanno mettendo in atto dei meccanismi di difesa totalmente disorganizzanti per la propria salute. Il diniego è un meccanismo per certi versi semplice ma fine e complesso nella sua espressione quotidiana. Con esso l’individuo rifiuta un dato di realtà».

Il diniego, infatti, è una procedura di difesa attraverso la quale vengono evitati inconsciamente aspetti spiacevoli della realtà tramite l’uso di una fantasia che cancelli il fatto sgradevole; è un rifiuto inconscio di riconoscere aspetti dolorosi della realtà. In molti casi, funziona come un’ancora di salvezza, in altri, come nel caso della pandemia, diventa un atto politico, un ostacolo alla gestione della sanità pubblica, un gesto sconsiderato che può avere effetti sociali devastanti.

È un’ampia platea di persone quella che dice «no»: le loro tesi si basano sul presupposto che il Covid non esiste, ma si tratta di un’operazione pianificata dai «poteri forti» con la complicità delle forze politiche, per imporre un regime di sorveglianza autoritario: si parla di «dittatura sanitaria». Una contestazione spesso manifestata con toni accesissimi che si alimenta nella «piazza social», per poi trasferirsi nelle agorà televisive e poi nelle piazze vere delle città dove si impongono i leader del dissenso.

Ecco, se mai ce ne fosse ancora bisogno, la lunga emergenza sanitaria ha dimostrato che lo slogan «uno vale uno» è una solenne falsità, frutto di una semplificazione che coinvolge anche i mezzi di comunicazione (stampa, televisione e soprattutto internet). La paura impedisce ogni approfondimento e si nasconde dietro la negazione. Ma negare le evidenze non è solo anti-funzionale: una società in cui troppi soggetti rifiutano la realtà è una società in cui questa minoranza danneggia non solo la maggioranza ma la sopravvivenza della coesione sociale. Un processo degenerativo rinforzato dalla continua velocizzazione. Infatti, per includere la dimensione morale nelle dinamiche mentali ci vuole tempo: le chat e i social, invece, abituano a risposte sempre più istantanee, rendendo sempre più arduo valutare a fondo quelle che hanno una connotazione etica.

Come sostiene lo psicoanalista e sociologo Luigi Zoja, «in una grandissima parte della popolazione sopravvivono fobie corporee poco gestibili. C’è chi accetta una medicina per bocca, ma non per iniezione, sotto forma di liquido, ma non come pillola. Non è raro avere in terapia donne che desiderano – sinceramente, genuinamente – un figlio: ma sono terrorizzate dalla fantasia di un “essere estraneo” che cresce dentro al loro corpo. A un animale questo non succede: inizia la gravidanza e basta. Per l’inconscio, il vaccino rappresenta una invasione simile: non per niente ha un nome che ricorda come, in origine, veniva prelevato da una vacca, cioè da un animale. L’evoluzione ha impiegato tempi immemorabili per trasformarci nel sapiens: e in un attimo, dice la fantasia non cosciente, quel titanico sforzo potrebbe essere annullato».