Un mattino di inizio giugno al risveglio ho realizzato che iniziava una domenica, vale a dire quello che una volta era considerato giorno di festa. Nella mente arriva sparato un lungo «replay» di bellissime nostalgie che dalle domeniche della fanciullezza si spingevano sino a quelle condivise con moglie, figli e nipoti. Feste vere quelle della seconda metà del secolo scorso, eppure oggi quasi sparite, difficili persino da spiegare e da far capire. Per me, come per una moltitudine di ticinesi, la domenica era «giorno del Signore» segnato sin dal mattino da momenti e richiami (la messa, i vespri) legati alla religione e al «Ricordati di santificare le feste». Poi a partire dei decenni finali del secolo scorso l’imprinting del catechismo ha via via perso forza e carattere unificante, sino a cedere il posto a una sorta di «privatizzazione» del tempo libero con richiami «laici» e di evasione, legati soprattutto allo sport. (Parere strettamente personale: a guardare bene quel cambiamento era antesignano del fenomeno quasi analogo che con qualche decennio di ritardo avrebbe toccato e mutato anche la politica, con declino dei dogmi dei partiti e conquista dei «vuoti» da parte dei populismi).
Chi studia i fenomeni sociologici offre una spiegazione «tecnica» della perdita del senso della festa: in una società complessa come quella moderna, sempre più impegnata a incorporare o a fagocitare modelli culturali e mondi diversi, è normale che anche il tempo abbia iniziato a disarticolarsi in frammenti autonomi con funzioni e scopi differenti. A spanne, l’impressione che il senso della festa più che una perdita di forza ha gradatamente registrato una lenta contaminazione, simile al «mitridatismo»: domeniche e festività sempre più vuote e, soprattutto per le nuove generazioni, prive di senso tanto da essere vissute soltanto come una parentesi o una sosta del tempo del lavoro. Inevitabile che giungesse anche un declino delle feste come riflesso della perdita di precisi richiami (obblighi), abbigliamenti («della festa»), addirittura con cibi «ad hoc» (il capretto pasquale!) o più «buoni», spesso abbinati a una convivialità legata alla famiglia o alle amicizie piuttosto che dettata dalla sola dimensione religiosa. I rimandi a famiglia e cucina (atmosfere che stranamente continuano a sopravvivere in messaggi anche modernissimi del marketing) mi ricordano un brano di Pierangelo Buttafuoco riferito proprio alla perdita del senso delle feste con tanto di colpevolizzazione del cibo e più precisamente del brunch. Dopo averlo condannato, perché talmente aperto da celare persino cosa si mette in tavola e quindi «immette un’idea di socialità intorno a un desco open», Buttafuoco nel suo apologo inserisce anche un ammonimento: «Ha anche una funzione il brunch: sfascia la domenica. Non è più considerato il giorno adatto per la lasagna robusta, né – figurarsi – per la preghiera, ma una forma di day open, molto open, dove non si sa come deprimersi definitivamente». Sino ad arrivare a una vera e propria sentenza contro la perdita di sacralità della festa: «Tutto cominciò a morire quando, di domenica, ci si vestì con la tuta». A far riflettere su questi mutamenti culinari c’è, perlomeno sui calendari svizzeri, il paradosso del non mangiare: il Digiuno federale della terza domenica di settembre, festa che ormai nessuno più ricorda (figuriamoci l’osservanza... che al sud non è mai esistita).
Noi della generazione dei settantenni, cioè di chi si è buttato sul vivere trascurando incertezze e timori, ci lamentiamo della perdita del senso della festa forse non tanto perché sentiamo nostalgia per camicia, cravatta e scarpe «belle» (ormai fanno ridere solo vedendole negli armadi), ma piuttosto per impedire una omologazione riconducibile alla ferialità, alla tuta, alla quotidianità. Inutile negare che la nostra è una battaglia sempre più da retroguardia e anche un po’ surreale. Per consolarci, arriviamo persino a credere che in fondo non abbiamo perso il senso delle feste, ma unicamente rinunciato a certi riti. Quelli religiosi in primis, ma anche la miriade di attività un tempo «proprie» della domenica e dei giorni non lavorativi: dalle partite allo stadio in città a quelle sui viali delle bocce nei paesini, dall’aperitivo in piazza alle orchestrine che arrivavano in valle. Così, dopo le scorribande mentali in cui ti rivedi bambino felice «del dì di festa» poi giovane e genitore che inizia a captare la perdita di sacralità delle domeniche, alla fine arrivi agli auguri che solitamente segnano il momento del pensionamento: «ora la settimana avrà sette domeniche», «tutti i giorni saranno di festa» ti dicono un po’ tutti. Meglio gradirli con qualche riserva: a parte che in ballo ci sono percezioni soggettive, mi sa che la perdita del senso della festa ha finito per rendere un po’ negativo, se non proprio esiziale, anche quell’abituale e sincero augurio.
C’è ancora un senso del dì di festa?
/ 28.06.2021
di Ovidio Biffi
di Ovidio Biffi