Andremo avanti, vogliamo la nostra indipendenza, dicono i leader catalani, mentre Madrid offre il suo volto duro, durissimo, anche quando a parlare è il re. Lo scontro tra due esigenze, autonomia e centralizzazione (quest’ultima sancita dalla Costituzione di Spagna), non è destinato a risolversi in fretta, e pone molti interrogativi al resto del continente europeo: per ora da Bruxelles, tra impaccio e poche idee, c’è solo un invito al dialogo. Si parla della possibilità di un inviato-mediatore dall’esterno – circolano molti nomi, dall’ex premier inglese Tony Blair al team del negoziato nordirlandese, soprattutto il diplomatico George Mitchell, alla capa della diplomazia europea Federica Mogherini – ma la necessità stessa di delegare a uno straniero un dialogo interno, profondo, identitario, culturale, è di per sé un fallimento. Di Madrid, certamente, che ha liquidato le richieste autonomiste, ma anche dei catalani, che rifiutano le mediazioni e ripetono: la nostra battaglia indipendentista si fermerà solo con l’ottenimento dell’indipendenza.
Lo spettacolo cui assistiamo non è dei migliori, e le immagini arrivate dalla domenica del voto illegale per il referendum – attenzione alle manipolazioni e ai fake! – resteranno indelebili nel racconto di questo conflitto. Basta guardare i media russi per capire fino a che punto è arrivato il cortocircuito: la polizia del governo centrale che impedisce ai catalani di votare è un’arma di propaganda semi invincibile per Mosca e per Vladimir Putin. Non fateci mai più la morale voi europei, dicono i commentatori filogovernativi russi: ci criticate per come trattiamo le proteste qui da noi, ci avete accusato di ogni nefandezza per aver represso le piazze eurofile nelle nostre ex Repubbliche, soprattutto il Maidan ucraino, e ora guardatevi, non fate votare i vostri stessi cittadini. Mosca se n’è già approfittata mandando in galera per la terza volta nel giro di un anno il suo rivale più iconico, Andrej Navalny, ed è appena superfluo ricordare che le indipendenze dai regimi sono affare diverso rispetto alla secessione dai governi centrali e democratici di aree floride e benestanti in giro per l’Europa. Ma la propaganda è bella che confezionata, così come è davvero difficile spiegare che ogni caso ha la sua storia e le sue conseguenze, e non tutto è sempre paragonabile: il premier serbo, per dire, ha criticato Bruxelles e il suo «doppio standard». Non vuole l’indipendenza catalana, ma ha accettato la secessione del Kosovo senza nemmeno la necessità di un referendum, dicono i serbi.
Ritornano storie antiche, si mischiano con odi e ambizioni moderne, e noi restiamo qui in mezzo a interrogarci sul significato degli Stati, sull’autodeterminazione dei popoli, sulla pretesa, nel 2017 alle prese con isolazionismi di varia natura, di staccarsi e di autogestirsi. La risposta immediata al quesito la danno i sostenitori della causa catalana che sottolineano: non è un rifiuto della globalizzazione, questo, la Catalogna è europeista, vuole rimanere nel consesso europeo, è soltanto il governo spagnolo che va stretto, e di traverso. Ma non funziona così, non sono queste le regole del gioco: la Catalogna indipendente dovrebbe prima uscire dall’Ue, e poi rientrare. Il meccanismo prevede tra l’altro l’unanimità per il reintegro, ed è difficile pensare che la Spagna sarebbe disposta a dare il suo consenso, ma non è questo il punto politico più rilevante. Il punto è che una volta fuori dall’Ue si è trattati come un membro esterno, ci sono i dazi alla frontiera, c’è una valuta che non è l’euro, con conseguenze sul business e sulla finanza che non possono che essere negative. È sufficiente seguire la pena del negoziato sulla Brexit tra Londra e Bruxelles per sapere che una sortita e un rientro porterebbero, come risultato immediato, un impoverimento assoluto.
Basterebbe cambiare le regole, accettando l’istanza catalana e levandosi i toni punitivi tipici di Madrid e di Bruxelles, dicono i catalani: ma siamo sempre lì, per cambiare le regole – come le costituzioni – servono dialogo e mediazione, serve un processo e servono prospettive temporali di ampio respiro. Lo scontro, io voto al mio referendum anche se tu non vuoi, non porta a un cambiamento né a un miglioramento: è crisi permanente. Quando gli scozzesi sono riusciti a ottenere il loro referendum – ci sono voluti decenni e conflitti di ogni genere – hanno poi scelto di restare nel Regno Unito. Non senza sofferenze, sia chiaro, non senza pentimenti e nervosismi. Ma la solitudine con il portafoglio vuoto, il cuore e una capanna, alla fine non piace nemmeno al più romantico degli indipendentisti.