L’ascesa è breve, in verità non è un monte ma una collina chiamata un tempo Monescia. Tra le fronde, una bella giornata mutevole d’inizio autunno, spunta casa Anatta (327 m). Pianterreno in pietra, poi tutta in legno con tetto piano delimitato da un parapetto leggero. Segno di un suo originario utilizzo, sottolineato, con punto esclamativo, da Sigfried Giedion nella didascalia tra le due foto scattate – una da lì sopra il tetto con vista lago e una dal terrazzo qui al primo piano sempre con il tetto al centro dell’attenzione – da lui stesso. Apparse, proprio per via «del tetto come funzione abitativa», in Befreites Wohnen (1929). Abitare liberato che assaporo, camminandoci accanto, nella luce mattutina d’ottobre.
Gli angoli delle finestre, in questo ibrido di grande villa, chalet, capanna aria-luce, sono arrotondati in stile teosofico. Nata nel 1904 per Ida Hofmann (1864-1926) e Henri Oedenkoven (1875-1935), pianista tedesca e naturista belga barbuto-capellone figlio di un ricco industriale di Anversa, cofondatori, quattro anni prima, della colonia vegetariana Monte Verità. Battezzata con un termine pali che racchiude la dottrina buddista del non sé e attribuibile a Oedenkoven stesso con l’aiuto dell’amico-sosia geometra Robert Jentschura, considerata ai tempi «la più originale casa svizzera in legno», nel 1927 diventa dimora del barone con la faccia da Budda e lo sguardo da volpe: Eduard von der Heydt (1882-1964). Banchiere tedesco e collezionista d’arte orientale che si compra, dopo la diaspora dei monteveritiani e l’intermezzo festaiolo impressionista, tutto il Monte Verità. La cui straordinaria storia viene dissepolta negli anni settanta da Harald Szeemann (1933-2005), mettendola in scena con cura maniacale nell’estate 1978, proprio qui, a casa Anatta, dove entro adesso a viverla stanza per stanza.
Intitolata Le mammelle della verità, la mostra – il cui intento era un’«antropologia locale come contributo alla riscoperta di una topografia sacrale moderna» – all’epoca è andata in tourné a Zurigo, Berlino, Vienna, Monaco, per poi ritornare a casa Anatta: museo del Monte Verità dal 1981 al 2009. Alla cassa, come in quel periodo, non c’è più Hetty Rogantini-de Beauclair (1928-2018) – figlia del segretario di Oedenkoeven – veneranda mascotte presente alla rinascita, dopo otto anni di restauro-letargo, il venti maggio 2017, del museo casa Anatta. Szeemann è immortalato in una gigantografia nel suo archivio-fabbrica rosa a Maggia, sulla soglia delle stanze a lui dedicate. Il cartone del vino Villa Jelmini dei fratelli Matasci di Tenero, incorniciato, è omaggio supremo e museificazione del grande riscopritore-mitografo del Monte Verità: in queste scatole infatti ordinava, secondo il tema, tutto il materiale raccolto. «Più bevo e più c’è ordine» diceva Szeemann che nell’introduzione al catalogo-oracolo della mostra, individua nell’anomalia magnetica della zona di Ascona, la ragione per questo «triangolo delle Bermude dello spirito». Scritto in bianco, a caratteri US Army, come gli altri titoli-tema delle stanze, sul plastico gigante di Peter Bissegger che mette in rilievo tutta la zona. Mentre dalle finestre, velate di nero tipo zanzariera, entra questo paesaggio dello spirito intriso di esotismo intedeschito.
Salgo le scale di pietra con pareti di legno ed ecco, al primo piano, esplodere tutta la bellezza lignea di Casa Anatta con soffitti alti più di quattro metri che si concludono con volte a botte. Ai tempi di Ida Hofmann – al piano suonava il Parsifal – ed Henri Oedenkoven, neanche un quadro alle pareti, tinteggiate, pare, di verde oliva. Ora è tempio-capanna pieno zeppo di cimeli come articoli di giornale ingialliti, libri, foto di balabiott, antroposofi, adoratori della noce di cocco, apostoli-rapa, costumi per la danza, camicie di lino bianco grezzo dei primi monteveritiani. Tra i quali spicca il mio preferito: Vladimir Straskraba-Czaja. Fondatore della Famiglia del mirtillo con i suoi dodici comandamenti esposti. Il pezzo forte, nella cimelioteca della riforma della vita, è forse, nella stanza dedicata ai fratelli Gräser, la sedia contorta fatta con rami, ideale per un arredamento elfico. La raccolta di minerali trovati a Bosco Gurin dal pittore anarchico Ernst Frick, come pure le pietre nere a Balladrum e la sua mappatura, meravigliano.
L’apertura delle magistrali scale svasate, riprende la curvatura delle finestre. Salendo al secondo piano ho l’impressione di essere in una specie di vecchio stabilimento balneare baltico costruito dagli hobbit sui Carpazi. Angolo-epoca barone von der Heydt con tanto di triade buddista giapponese del seicento e dépliant capolavoro dell’albergo bauhaus da lui commissionato al pari della prima biografia del monte. Biografia firmata Robert Landmann, 1930, il cui poster con palmizio iconico blu campeggia alle pareti. Due stanze sono per i reperti sopravvissuti – grazie a Ingeborg Lüscher – del fantastico bosco enciclopedico (distrutto) di Armand Schulthess ad Auressio. La mezzanine è per la baronessa de Saint-Léger, le cui isole di Brissago, perdute finendo in miseria all’ospizio di Intragna, a fatica si intravedono laggiù. Peccato solo, alla fine del magnifico reliquiario ringiovanente dei cercatori di eden, in simbiosi totale con questa capanna aria-luce di lusso in origine anche luogo per concerti e balli, non poter uscire a passeggiare sul tetto. In compenso, nel parco, c’è un campo da tennis storico dove giocare e una vera casa del tè per sorseggiare un tè verde coltivato qui.