Caro potente della Terra ti scrivo

/ 18.07.2022
di Orazio Martinetti

Il lamento riguardante il presunto disimpegno o silenzio degli intellettuali su guerre e tragedie, dittature e ingiustizie, è ricorrente. Il che è in parte vero, se il riferimento è alle figure che hanno dominato il dibattito pubblico tra Otto e Novecento, a partire dal celebre «j’accuse» di Zola sul caso Dreyfus o al più recente «io so, ma non ho le prove» di Pasolini. Il fatto è che i luoghi della cultura e la sfera dell’informazione negli ultimi decenni sono profondamente cambiati, relegando gli «intellos» tanto cari ai francesi in un angolo, scalzati da altre forme di protesta e da strumenti mediatici non più legati ai canali tradizionali, dal quotidiano al libro. Perché questa è la novità della nostra epoca, l’irruzione delle reti sociali nella quotidianità, uno spazio ove ognuno ha la possibilità di prendere la parola e quindi di esprimersi (su tutto e spesso contro tutti). Siamo al massimo della democraticità, se vogliamo, ma anche al massimo della confusione. Non per nulla l’esplosione delle Reti (Facebook, Instagram, Twitter eccetera) ha consentito una parallela propagazione di notizie false. Anche i siti seri e organizzati scientificamente, che pure per fortuna esistono, faticano a farsi largo nel sabba delle fandonie e delle dissimulazioni.

La propaganda è sempre esistita; ha accompagnato e sorretto come arma ausiliaria i conflitti, quelli bellici ma soprattutto quelli ideologici. Proprio in questi giorni abbiamo recuperato dalla cantina in cui placidamente dormiva un libello di Bertrand Russell intitolato Lettera ai potenti della Terra. Pubblicata nel periodico laburista «New Statesman» nel 1957 e tradotta da Einaudi l’anno successivo, la missiva del matematico e filosofo inglese, nato centocinquant’anni fa, esortava i rappresentanti delle due massime potenze di allora, Stati Uniti e Unione Sovietica, a deporre le armi (nucleari) e a cooperare fattivamente per costruire un orizzonte di pace. Russell sottolineava inoltre lo spreco di risorse, umane e materiali, che l’insensata corsa all’atomica comportava per entrambi i paesi: «È evidente che sia la Russia che l’America potrebbero risparmiare i nove decimi delle loro spese attuali se concludessero un trattato di alleanza e si dedicassero di comune accordo alla preservazione della pace nel mondo». Al pressante invito del filosofo risposero Nikita Kruscev e, per conto del presidente Eisenhower, il segretario di stato John Foster Dulles. Il primo colse l’occasione per magnificare le conquiste del sistema sovietico e per assicurare piena disponibilità al dialogo; il secondo ritenne invece fallace la missione che il capo del Cremlino si auto-attribuiva, ricordando che «in nessuna parte del mondo il partito comunista mantiene oggi il proprio dominio se non imponendolo con la forza alla grande maggioranza della popolazione».

Occorre ricordare che le tensioni crescevano di anno in anno, dal blocco di Berlino del ’48-49 alla successiva guerra di Corea dei primi anni Cinquanta, raggiungendo l’apice con la divisione della Germania e la crisi dei missili di Cuba (ottobre 1962). Dalla tenaglia est-ovest era impossibile sfuggire. Anche la neutrale Svizzera, già negli anni Cinquanta, avviò preparativi per dotarsi della bomba atomica: un’iniziativa costituzionale lanciata per vietarne l’introduzione, giunta alle urne nel 1962, fu respinta dal popolo, dando via libera alla ricerca controllata dai militari (solo quattro cantoni approvarono l’iniziativa, tra cui il Ticino). Il progetto fu successivamente abbandonato a favore dello sfruttamento civile dell’energia nucleare.

Ma torniamo a Russell e alla sua supplica. Preso atto delle risposte, egli concluse che non coglievano il nocciolo della questione: «Non posso affermare che, fino a questo momento, il risultato sia stato molto incoraggiante». Lo sconforto, per il filosofo, persisteva: «Noi siamo tutti in pericolo, in mortale pericolo, noi stessi, i nostri figli, i nostri nipoti: non i nostri pronipoti, se non riusciamo nell’intento, giacché, in quel caso, non avremo pronipoti». Rileggendo quelle pagine non possiamo non rivolgere un pensiero alle sordità odierne, all’incomunicabilità tra le grandi potenze, alla loro «libido dominandi» che soffoca sul nascere ogni tentativo di vero dialogo.