Capitale umano, fattore di crescita

/ 29.03.2021
di Angelo Rossi

L’espressione «capitale umano» è entrata nel linguaggio degli specialisti della gestione delle risorse umane da almeno una trentina d’anni. Si tratta di un concetto che, come molti altri dell’economia aziendale, non sempre corrisponde a qualcosa di preciso e misurabile. Per alcuni il «capitale umano» è solo un sinonimo alla moda da utilizzare al posto di termini più comuni come, ad esempio, l’effettivo dei lavoratori o la popolazione attiva. Per i ricercatori invece il termine capitale umano corrisponde alla somma delle conoscenze, dell’esperienza e delle competenze detenute da un determinato gruppo di lavoratori. Ne consegue che le ricerche empiriche sugli effetti dell’emigrazione di capitale umano devono poter disporre di una misura statistica dello stesso. Tuttavia, come spesso succede, anche nel caso del capitale umano il ricercatore non dispone di una misura diretta. La valutazione del capitale umano viene fatta ricorrendo ad indicatori indiretti. Il cumulo delle competenze e delle conoscenze di un gruppo di lavoratori può per esempio essere misurato dal numero di anni di scuola che questi lavoratori hanno frequentato.

Ovviamente si pensa che il capitale umano aumenti con il numero di anni di scuola frequentati. L’obiezione che così facendo si sottovaluta l’importanza delle conoscenze acquisite sul posto di lavoro è naturalmente legittima. Per semplificare ancora di più la raccolta di informazioni quantitative sul capitale umano nelle ricerche empiriche si ricorre, invece che agli anni di scuola, ai livelli scolastici. Esiste una definizione, condivisa a livello europeo, che suddivide la formazione scolastica in tre livelli. Il primo livello è quello della scuola dell’obbligo, il secondo quello della formazione professionale o della scuola media superiore (p. es. il liceo), il terzo è il livello universitario. A ogni livello corrisponde un certo numero di anni di scolarizzazione. Sapendo quanti sono i lavoratori che hanno terminato la loro formazione a un certo livello è così possibile calcolare il montante degli anni di scuola accumulati da un certo effettivo di lavoratori, per esempio quelli occupati nell’economia ticinese.

L’aumento o la diminuzione nel tempo di questo capitale di anni di studio viene utilizzato come misura dell’aumento o della diminuzione del capitale umano. Questo concetto e la sua misura suggeriscono almeno un paio di considerazioni. Dapprima si può notare che, per quel che riguarda l’economia ticinese, una quota importante del capitale umano è importata dalla regione di frontiera. Un’altra grossa fetta è rappresentata da capitale umano pure importato ma che, con il tempo, tende a insediarsi nel Cantone. Si tratta dei lavoratori domiciliati. Solo il resto – forse meno della metà del totale – è per finire capitale umano formato e residente nel Cantone.

In secondo luogo si può ricordare che le discussioni tra i ricercatori vertono attualmente intorno a due questioni. La prima riguarda le disparità in capitale umano tra i Cantoni. Le stesse di solito vengono misurate riferendosi solo al numero di lavoratori che hanno concluso i loro studi a livello terziario. Nello studio La Nuova Lugano, pubblicato nel 2008, per esempio, si ricordava che, nel nuovo comune di Lugano, la quota di persone (in questo caso si tratta quindi della somma degli occupati, dei disoccupati e dei pensionati) che possedevano un titolo o un diploma di livello terziario era, nel 2000, pari al 15%. Questo dato era superiore di tre punti percentuali alla media cantonale e di due punti percentuali alla media delle macroregioni svizzere. Come dire che, mentre la Nuova Lugano poteva vantare un capitale umano superiore alla media nazionale, in tutte le altre regioni del Cantone il capitale umano era inferiore alla media svizzera.

Economicamente parlando, quindi, Lugano era la città maggiormente attrattiva del Cantone e una delle più attrattive in Svizzera. La seconda questione concerne l’impatto della migrazione di cervelli sull’evoluzione del capitale umano del Cantone e delle sue regioni. Studi concernenti altre nazioni europee dimostrano che questo impatto è negativo. Per il Ticino, finora, non disponiamo dei dati necessari per fare questa valutazione. Chissà che qualche studente della facoltà di economia dell’USI, leggendo questo articolo, non si metta di buzzo buono a cercare di riempire questa lacuna?