Ne abbiamo conferme quotidiane. Ultima delle serie: il bacio del principe a Biancaneve addormentata, ovviamente non consenziente, costretta quindi a subire un oltraggio da parte di un maschio sopraffattore. Da qui, la decisione di eliminare dal repertorio della letteratura popolare una fiaba che testimonia una sudditanza oggi intollerabile. Come impone, appunto, la cancel culture, corrente di pensiero, nata e cresciuta negli USA, dove agli esordi interpretò una giustificata reazione di protesta nei confronti, innanzi tutto, della discriminazione razziale. In nome del politically correct, come si chiamava allora, gli ambienti universitari si mobilitarono sul fronte del linguaggio per sostituire la parola nigger, dai connotati dispregiativi, con persona di colore, primo passo verso la conquista di una parità almeno formale. In seguito, la lotta si rivolse alla parità di genere, in una società dove il potere, sia politico sia finanziario, rimaneva di pertinenza maschile. Alla Casa Bianca, la presenza femminile continua a essere quella decorativa della First Lady, la moglie del presidente in carica. Ma il dopo Biden delinea un cambiamento? Staremo a vedere.
Tutto ciò per dire, che il politically correct era partito con il piede giusto. Strada facendo, però, ha perso la bussola. E proprio in un paese, grande e vulnerabile, dove c’è posto per tutto e il contrario di tutto, un movimento d’ispirazione morale è sbandato nel moralismo, parente prossimo dell’oscurantismo. Non si dimentichi che, negli anni 20 e 30, la lotta contro l’alcolismo portò a un proibizionismo dagli effetti controproducenti. Mentre, negli anni 50, la denuncia degli errori del comunismo scatenò la caccia al comunista di McCarthy. Insomma, serve sempre un colpevole. Persino immaginario, come lo sono adesso quelli prodotti dalla cancel culture, dove dai proclami si è passati ai fatti, addirittura alla violenza. Scatenando un’ondata iconoclastica che si abbatte sui monumenti, i dipinti, i libri considerati simboli e fantasmi di un passato da eliminare. Ne hanno fatto le spese la statua di Colombo, i ritratti di Jefferson, e poi, alla rinfusa, romanzi come La capanna dello zio Tom, Robinson Crusoe, film come Via col vento, accusati di veicolare un’immagine edulcorata del colonialismo.
Se, finora, una motivazione poteva giustificare un atto d’accusa, adesso si assiste allo sbandamento nell’assurdo, addirittura nel ridicolo che, tuttavia, non frena la diffusione di un fenomeno di dimensioni mondiali. Le cronache ne propongono esempi a iosa. Incredibile ma vero, lo scandalo suscitato dalla ragazza olandese che aveva tradotto e recitato la poesia di Amanda Gorman, afroamericana, dedicata a Biden. Come poteva una bianca interpretare credibilmente i versi di una nera? Un redattore del «New York Times» è finito nei guai per aver alluso, in un articolo, agli occhi a mandorla di un’intervistata. Per non parlare poi dei sospetti di molestie sessuali che gravano su scrittori, attori, editori. Il più recente concerne Blake Bailey, autore della biografia di Roth: la casa editrice W. W. Norton si è vista costretta a sospendere la pubblicazione.
Del resto, le accuse d’immoralità gravano, a titolo postumo, anche sulle figure, dei grandi della letteratura mondiale. Compreso il mio prediletto Dickens, non certo un marito esemplare. E, rimanendo nell’ambito anglosassone, anche Orwell sarebbe a rischio di cancellazione. Insomma, si salvi chi può.
C’è, naturalmente, anche chi reagisce a quest’ondata di moralismo deviante: per John Grisham, il politically correct è addirittura una tragedia all’insegna della stupidità, cioè l’impossibile tentativo di adeguare la letteratura di ieri alla sensibilità di oggi. Ma, al di là dell’ambito letterario, questa tendenza comporta un rischio più grave: compromettere l’avvenire di giuste cause, femminismo, antirazzismo, parità sociale rendendole ridicole. Da noi, l’ultimo episodio si riferiva alla festa della mamma: da abolire, in nome di una nuova concezione della famiglia. Fatto sta che, a furia di cancellare, rimane il vuoto.