Cancel culture e nuovi consensi

/ 31.05.2021
di Aldo Grasso

Spesso, volendo difendere i più deboli, si combattono battaglie di retroguardia. È il caso della cosiddetta Cancel Culture, la cultura della cancellazione, ovvero la tendenza a condannare all’oblio persone o aziende considerate colpevoli di aver sostenuto – anche in passato – valori contrari ai diritti delle minoranze, alla parità di genere, all’uguaglianza e in generale al politicamente corretto: si abbattono le statue di Cristoforo Colombo perché trattò male i nativi, Via col vento viene preceduto da una spiegazione in cui si definisce il contesto razzista del racconto.

Tutto è iniziato con la Culture of Complaint, la cultura del piagnisteo. Così Robert Hughes definiva già nel 1993 quell’attitudine secondo cui si procede negando la realtà e dando tutto il potere a formule verbali o comportamenti che deformano in modo grottesco ciò che è: il mutare nome alle cose mantenendone però invariata la sostanza, come se bastasse trovare un alibi semantico.

Nel dicembre 2019, l’australiano Macquarie Dictionary elegge parola dell’anno «Cancel Culture». La definizione che ne dà è più o meno quella classica – «l’atteggiamento all’interno di una comunità che richiede o determina il ritiro del sostegno ad un personaggio pubblico» – mentre la motivazione per la scelta è che si tratta di «un atteggiamento così pervasivo che ora ha un nome, la Cancel Culture della società è diventata, nel bene e nel male, una forza potente».

«Il Foglio» (dicembre 2019), nel commentare la notizia, si chiede: «Quanti sono i libri finiti al macero ancor prima di essere pubblicati? Quanti i quadri, da Balthus a Gauguin passando per Schiele e Picasso, che si è fatto o si voleva far sparire dalla vista del pubblico nei grandi musei, processandoli ex post per la condotta sessuale poco irreprensibile dei loro autori? Quanti i direttori d’orchestra, i cantanti, i ballerini, scomparsi dal mondo della musica classica e operistica? [...] Quante le statue [...] tirate giù? Quanti i cartoni animati archiviati per sempre o le musichette jazz poco edificanti fagocitate dalla nuova doxa antirazzista e militante?». 

La Cancel Culture nasce come antidoto all’hate speech, al linguaggio dell’odio e del razzismo ma ben presto si trasforma in una sorta di ideologia, in un manuale di comportamento (ma spesso, oltre al biasimo pubblico, c’è la volontà di far perdere la posizione professionale all’accusato, c’è risentimento, c’è mediocrità di pensiero), tanto che sulla rivista americana Harper’s Magazine è apparsa una lettera firmata da circa 150 intellettuali, preoccupati della piega illiberale di una simile tendenza. «Una lettera sulla giustizia e il dibattito aperto» denuncia un clima ostile nei confronti del «libero scambio di idee e informazioni», dominato da «un’intolleranza per le opinioni diverse, l’abitudine alla gogna pubblica e all’ostracismo, e la tendenza a risolvere complesse questioni politiche con una vincolante certezza morale».

Spesso il dibattito sulla Cancel Culture si è sovrapposto a quello sul cosiddetto «politicamente corretto», un’espressione che negli ultimi anni è arrivata a indicare un fenomeno molto più complesso e sfaccettato di quello per cui era usata qualche decennio fa. È un discorso estesissimo che avvolge molte situazioni, dai libri ritirati dal commercio per le controversie sui loro autori alle sempre più frequenti proteste sui social network quando in tv vengono dette cose razziste o sessiste. E che ha al centro le nuove e sempre più diffuse sensibilità sui linguaggi da adottare, sulle parole da evitare e su quelle invece da introdurre nel lessico comune per essere più rispettosi delle cosiddette minoranze e delle persone in generale.

Il «politicamente corretto» sarebbe diventata la nuova ideologia «informale» degli ambienti universitari americani con l’obiettivo non solo di distruggere il canone tradizionale, ma anche di instaurare un meccanismo che premia la vittimizzazione, favorendo così le minoranze.

Una delle critiche più sovente rivolte alla Cancel Culture è quella, fondamentalmente, di usare gli stessi strumenti discriminatori nei confronti di chi non condivide le sue posizioni e di utilizzare un metodo censorio. Secondo la posizione di costoro, i diversi movimenti dal # MeToo a #BlackLivesMatter, sarebbero colpevoli di limitare la libertà di espressione. Così come è successo nella già citata lettera degli intellettuali a «Harper’s Magazine».

I non pochi sostenitori della Cancel Culture sostengono che è errato parlare di censura, come fanno molti esponenti della destra americana ed europea, perché difendere la libertà di parola in astratto in realtà significa solo difendere una posizione di privilegio, la facoltà di dire ciò che si pensa senza conseguenza.

Esiste, purtroppo, un nuovo consenso generato dai social («new consensus») secondo il quale per perseguire l’uguaglianza (il senso comune) si inibisce la libertà di espressione dei singoli.