Accadono cose strane in quest’anno folle. Un quarantottenne ha litigato con sua moglie, è uscito di casa senza portafogli né cellulare e per la rabbia non si è più fermato. Era partito da Como e, camminando e rimuginando e forse imprecando, ha percorso a piedi circa 450 chilometri finché dopo una settimana si è ritrovato a Fano, nelle Marche. Più di 60 chilometri al giorno, bevendo e mangiando ciò che lungo la via gli offriva la gente. Finché il viaggio è stato interrotto da un agente della polizia particolarmente zelante che l’ha multato non per divieto di sosta e nemmeno per eccesso di velocità (forse avrebbe potuto) ma per violazione del coprifuoco. Controllando le generalità anagrafiche dell’uomo, il poliziotto ha poi scoperto che la moglie ne aveva denunciato la scomparsa qualche giorno prima: dunque la chiama e la signora da Como (in auto, si presume) corre a riprendersi il marito in fuga (e a pagare la multa). Unica dichiarazione raccolta dai cronisti: «Mi sento un po’ stanco» (6–).
D’accordo, ma la domanda è: dove sarebbe arrivato il Forrest Gump lombardo se non ci fossero state le norme sulle zone rosse, arancioni e gialle a frenarlo? Certamente avrebbe capito meglio il suo impulso camminante consultando l’antropologo francese David Le Breton, che in Marcher la vie (5+, pubblicato dalle Editions Métaillié di Parigi) tesse le lodi dell’homo caminans, cioè dell’uomo che ama mettersi in strada e marciare (per non marcire): «Chi si mette in cammino è sempre in cerca di qualcosa, ma spesso non sa esattamente cosa. Sopravvive in molti di noi un desiderio infinito che ci spinge da un luogo all’altro per cercare un posto meraviglioso che magari si nasconde appena oltre il nostro quartiere». E, si suppone, anche oltre la zona rossa. Allontanandosi, aggiunge Le Breton, si coltiva spesso interiormente il desiderio di tornare.
E chissà se questi sani princìpi valgono anche per il camminatore comasco… Che può sempre aggiungere alla bibliografia sull’argomento un aureo libriccino del grande Thomas Bernhard, Camminare (Adelphi), il cui incipit è già tutto un programma (di pura follia, 6): «Mentre io, prima che Karrer impazzisse, camminavo con Oehler solo di mercoledì, ora, dopo che Karrer è impazzito, cammino con Oehler anche di lunedì... ho salvato Oehler dall’orrore... perché non c’è nulla di più orribile del dover camminare da soli di lunedì».
Accadono cose impensabili. In Namibia, le elezioni nella regione di Oshana sono state stravinte da Adolf Hitler con un 85 per cento schiacciante. Niente paura, però. Adolf Hitler è soltanto il nome di battesimo, un nome composto, scelto dai suoi genitori, l’equivalente del nostro Piermario o Giancarlo. Il cognome è Uunona. Il poveretto ha dovuto precisare, a chi temeva un ritorno imprevisto in carne e ossa (e baffetti) o un rigurgito di nostalgia nazista, che non ha nessuna intenzione di ispirarsi al suo omonimo tedesco simpaticamente soprannominato il Führer.
Il suo nome è imputabile soltanto alla fantastica bizzarria di suo padre. In effetti, il signor Adolf Hitler Uunona incarna l’esemplare più tipico della categoria «figli che rischiano di pagare le colpe dei padri». «Da bambino – ha detto – quel nome mi sembrava del tutto normale, solo da adulto ho capito…». D’accordo da bambino (6), ma da adulto (2) provare magari a informarsi in un ufficio anagrafe se fosse mai possibile adottare uno pseudonimo?
Succedono cose inquietanti. Muoiono gli eroi immortali. Non quelli che camminano come Bernhard, ma quelli che corrono (per chi ama il genere, da leggere assolutamente Haruki Murakami, L’arte di correre, Einaudi, 5½). O meglio, quelli che correvano. E correvano con scatti fulminanti. Com’è possibile che muoiano i miti?
Per esempio, Paolo Rossi, il centravanti di Bearzot, capocannoniere del Mundial 1982? Fragile, pallido eppure indistruttibile. Sembrava che morisse sul campo e invece improvvisamente si svegliava, scattava e segnava. Un fulmine. Un piè veloce. Gianni Brera, un piè veloce della penna, scrisse che Paolo Rossi, prima del guizzo fulmineo, «volitava smarrito fra punte e gomiti ostili» (gli avversari della finale erano i «satanassi» tedeschi). Ma quando fu portato in trionfo era tutti noi, un bravo ragazzo del ’56. Pablito aveva acquistato il sorriso e non aveva perso il pallore.
Gente che parlava pochissimo. Ricordò che dopo la tripletta contro il Brasile di Zico, Bearzot non gli disse nulla. Qualche mese fa confessò che la cosa che gli mancava del calcio era l’odore dell’erba (6 come i gol segnati in Spagna). Tutt’altro tipo rispetto a Diego Maradona, nella cui eredità c’è un anello da 300 mila euro e un carrarmato parcheggiato in Bielorussia. Succede che muoiono gli eroi, e succede anche che muoiono come mai te lo aspetteresti. E dove mai te lo aspetteresti.
Maradona è morto in una sala da biliardo, su un materasso nero senza lenzuola, niente bagno, solo un wc chimico, tra sacchetti di robaccia, scaffalature vuote e un televisore mezzo incellofanato. Leggendo i reportage su quella stanza, viene da pensare che aveva proprio ragione il poeta: «Ogni eroe alla fine diventa una seccatura». Ma se avesse scelto di cominciare a camminare la vita, dopo averla corsa trionfalmente negli stadi, forse la vita di Maradona sarebbe cambiata. E allora nessuno poteva fermarlo. Non c’erano ancora le zone rosse, arancioni, gialle.