Cambiare le parole per cambiare il mondo?

/ 22.11.2021
di Lina Bertola

È senz’altro apprezzabile la sensibilità di chi chiede di esprimere, laddove sia possibile, anche il femminile delle parole con cui ci si rivolge alle persone. «Tutte e tutti», «ascoltatrici e ascoltatori», avvocata, architetta, e via dicendo. L’uso di queste forme linguistiche significherebbe, per le donne, una migliore accoglienza dentro forme di comunicazione declinate perlopiù al maschile.Si tratta di un’esigenza comprensibile, perfettamente in linea con un processo di riconoscimento della presenza paritaria delle donne nella società. Un processo lento e per certi versi difficoltoso e tormentato. Basti pensare alle inaccettabili differenze salariali tra uomini e donne ancora presenti in troppi ambiti professionali.

Rinnovare il linguaggio, dunque; arricchirlo con espressioni più rispettose del nostro comune «stare al mondo» di uomini e donne. Ma è davvero solo il linguaggio, o soprattutto il linguaggio, il luogo in cui mettere in atto queste necessarie forme di riconoscimento?

È vero che le parole sono la nostra dimora comune, la casa in cui abitiamo; ed è anche vero che noi viviamo dentro i nostri racconti e dentro infiniti intrecci con i racconti degli altri. Dunque sì, dare parole alla realtà significa renderla vivibile e vissuta in una comune condivisione.

D’altra parte, è altrettanto vero che qualche sospetto non trascurabile sul potere delle parole ha attraversato tutta la nostra cultura. Benché la storia del pensiero sia un grande e continuo racconto del desiderio di ricercare la verità, di riuscire ad esprimerla e di poterla condividere in un linguaggio comune, dubbi e critiche sono stati a più riprese pronunciati a proposito del legame tra le nostre parole e la verità.

È una storia antichissima: la prima critica nei confronti del linguaggio come veicolo di verità la incontriamo già ad Atene, nella cultura dei sofisti e nel loro duro confrontarsi con Socrate che riteneva invece la parola non solo il mezzo, bensì il luogo stesso della verità. Contro il dialogo socratico, teso alla ricerca della verità, i sofisti si proponevano come maestri di retorica, capaci di far vincere il discorso più forte, più utile a chi lo pronunciava, senza alcuna preoccupazione per il suo contenuto di verità.

Un possibile e inquietante approdo di quella che è stata una lunga e complessa storia di sospetti lo possiamo leggere nelle taglienti parole di Nietzsche: il linguaggio, secondo il filosofo, ha tra i suoi scopi principali quello di rendere possibile la costruzione della finzione. Ma come detto le parole sono pur sempre la nostra casa comune e allora si può anche continuare a credere che il linguaggio sia davvero il luogo indicato anche per il riconoscimento e per l’accoglienza delle donne. Si può continuare ad avere fiducia nella capacità delle nostre parole di avere presa su ciò che raccontano. In realtà, però, le cose sembrano un po’ più complicate.

Mettiamo pure, correttamente, un po’ di parole al femminile per rispetto verso la donna. Ma poi chiediamoci: quale legame unisce i significati che nutrono la parola «donna» con lo spirito del nostro tempo? Qual è il rapporto tra il significato di questa parola, sedimentato nella sua storia, e il clima culturale in cui viviamo? Uno sguardo sul contenuto delle parole può permetterci di cogliere la potenza espressiva del linguaggio e di riconoscere il compito etico della comunicazione. Ma può anche permetterci di capire se sia davvero possibile cambiare il nostro modo di percepire la vita e i suoi valori solo, o soprattutto, attraverso le parole. Altrimenti il rischio è quello di consegnare il linguaggio, con i suoi racconti, alle sue espressioni formali, di facciata. Il rischio è quello di accontentarci di una correttezza linguistica di superficie, sempre più apprezzata nella società dell’immagine e dell’esibizione, ma spesso anche suscettibile di improprie forzature.

Se, ad esempio, decidiamo di dire «architetta», mettendo al femminile la professione per meglio accogliere la donna che la esercita, non dovremmo trascurare il fatto che la parola «donna» è sempre ancora la parola pensata dagli uomini per raccontare il suo essere diversa, mancante, e spesso anche inferiore. E nemmeno dovremmo dimenticare che il «femminile» a cui si desidera dare più voce è sempre ancora quel «femminile» che è stato identificato con la donna e privato del suo valore originario.

Insomma, le parole possono anche diventare una prigione simbolica. E così, nonostante le buone intenzioni, possono involontariamente ribadire ciò che invece si vorrebbe superare.