Cambiamenti, incertezze e controlli

/ 21.09.2020
di Ovidio Biffi

Qualche domenica fa mi è capitato di seguire in tv una gara di Formula 1 disputata su uno splendido circuito assolutamente vuoto: pubblico assente, ma su un megaschermo, al passaggio delle vetture in certi punti, compaiono personaggi che si esaltano e strepitano come se stessero seguendo la corsa. Poco dopo guardo una partita di calcio, sempre senza pubblico, in un clima quasi surreale, distante mille miglia dal rito che da sempre associa il gioco del pallone a tifo e partecipazione. Il palliativo per ricordare il pubblico qui è rappresentato da sagome di spettatori fissate ai sedili delle tribune. Improvvisamente mi convinco di avere davanti agli occhi la nuova televisione, o la postcovid-TV se volete: obbligata a seguire (e un po’ anche a inventare) e comunque a trasmettere, un «non spettacolo» per fare... spettacolo e riuscire a tenere in vita tutto quanto vi è collegato: pubblicità, sponsor, risultati sportivi, audience, scommesse ecc. ecc. Ma non è di postcovid-TV che intendo parlare, anche se il tema mi intriga. Mi propongo invece di partire da quanto la crisi pandemica sta causando non solo al calcio o alla formula 1, ma allo sport in genere (e a tutti i livelli: da quello professionistico sino ai movimenti giovanili e dilettantistici) immaginando di poterne ricavare l’ennesima conferma che il calcio non è solo un gioco, ma riesce a essere un fatto sociale. Come spiegava Ignacio Ramonet, direttore di «Le Monde», in un editoriale di oltre venti anni fa, analizzando tutte le numerose componenti del gioco del calcio – ludica, sociale, economica, politica, culturale e tecnologica – è possibile ottenere una radiografia della nostra vita sociale, tanto da identificare e capire meglio i valori e le contraddizioni che modellano la nostra quotidianità. Così, davanti agli stadi vuoti e alle paure che minano una continuità che dura ormai da oltre un secolo nel mondo dello sport, mi chiedo: verranno adottate analoghe soluzioni anche in altri settori? Anche in economia? Anche in politica?

Cercando qualche risposta a questi interrogativi sorprende quanto sia limitato il numero di coloro che, dissertando di pandemia e di problemi collaterali da affrontare, si sbilanciano sino a fare previsioni a breve o a lungo termine: vittime della persistente incertezza. Eppure sarebbe utile di questi tempi sapere se questa pandemia imporrà anche in altri settori traguardi indicibili e «non vaccinabili». Anche perché, finita l’estate che avrebbe dovuto calmare la crisi, quel che sta succedendo in Spagna, Francia e Germania – tanto per restare nei dintorni – ci fa temere che il peggio possa ancora arrivare, cioè che l’incertezza aumenti e minacci sempre più di estendersi ad ogni livello e in quasi tutte le nostre attività. In parallelo si rafforza anche il timore che la crisi, proprio come dimostra la continuità «inventata» dalle televisioni per lo sport, stia lentamente scivolando verso un diverso modello che accetti nuovi parametri modificando valori, abitudini e standard anche in settori che ancora riuscivano sopportare o a nascondere l’incidenza e i danni della pandemia. È quanto confermano anche indicatori economici e segnali contrastanti con notizie e dati che da un lato garantiscono o promettono che ci sono tutti gli elementi per consentire una ripresa, dall’altro lasciano intravedere che la crisi prosegue e sta anzi intaccando livelli sino a ieri considerati solidissimi. Trovo emblematico il caso delle nostre Ffs che nelle scorse settimane hanno annunciato di aver «perso» quasi mezzo miliardo di introiti rispetto all’anno precedente. Altro segnale eloquente: la possibilità di abolire i tragitti casa – lavoro che lavoratori e imprese del terziario sfruttano (generando cambiamenti non solo logistici) grazie al tele-lavoro o smartworking che dir si voglia. A dimostrazione che un po’ tutta la popolazione convive sempre con la paura, ma opera scelte e rinunce non solo per i rischi pandemici.

I due esempi citati accentuano la sensazione di come (per tornare al gergo sportivo) la partita venga giocata, anche a livello politico e sociale, su un campo di calcio che ormai non ha più nemmeno il rilievo delle porte dove indirizzare la palla. L’analogia mi sembra appropriata per capire che il coronavirus continua a bloccare ogni progettualità e ogni aspirazione volte ad affrontare gli effetti collaterali della pandemia e a uscire da una visione orizzontale. Di riflesso sussiste il pericolo che lo stesso regime di «non spettacolo» che sta modificando sport e Tv-postcovid possa arrivare a minacciare anche altri settori, proponendosi come passaggio «obbligato». Per impedire a questo rischio di fare danni in una società sempre più fragile, vale forse la pena di seguire i consigli dell’ex-governatore della Banca europea Mario Draghi: accettare i cambiamenti con realismo, senza però «rinnegare i nostri princìpi. Altrimenti finiremo per essere controllati dall’incertezza invece di esser noi a controllarla».