Calabresi: un’autobiografia insolita

/ 04.11.2019
di Luciana Caglio

Il 10 febbraio scorso, Mario Calabresi, da tre anni direttore di «Repubblica», viene licenziato in tronco, per motivi rimasti ignoti. Ospite in TV di «Otto e mezzo», l’editore Carlo De Benedetti spiega la sua decisione alludendo, vagamente, a divergenze e tirature in calo. Nulla di più. Di certo non contribuisce a chiarire i retroscena della vicenda neppure il libro, fresco di stampa, La mattina dopo (Mondadori), in cui lo stesso Calabresi affronta il tema del licenziamento, a modo suo: non come una conclusione ma un inizio. 

È un esempio di resilienza, hanno commentato i recensori, con un neologismo che definisce, appunto, la capacità di assorbire un colpo ricavandone energia. Da queste pagine esce un messaggio di alto tenore morale, in un linguaggio privo di enfasi. È bene accolto dalla critica e dai lettori, tanto da diventare un bestseller del momento. Insomma ha fatto centro, pur evitando di appagare la curiosità, suscitata da un fatto di cronaca chiacchierato. Anche oltre frontiera. L’imprenditore De Benedetti è italo-svizzero, risiede sovente a Lugano, circondato dalla maliziosa ammirazione che spetta a un «grand patron». Figura nell’elenco dei 300 più facoltosi della Confederazione, pubblicato nell’edizione, copertina dorata, di dicembre della rivista «Finanz».

E adesso che farai? È la domanda con cui Calabresi si è trovato alle prese, per la prima volta in una carriera che gli aveva assicurato continuità nel lavoro, punto centrale delle sue giornate. Adesso, si apre un vuoto tutto da riempire. Lui non perde tempo in recriminazioni e amarezze: niente vittimismo. Ne coglie l’aspetto di una lezione di vita: con gli incidenti si deve imparare a fare i conti, ricostruendo una possibile normalità. Di cui poco si sa. Le cronache registrano le storie di infortuni, che fanno notizia, soprattutto se concernono personaggi in vista. Minor risalto si dà alle storie di recuperi, che avvengono in una silenziosa privacy. Per il giornalista, ora senza contratto ma sempre curioso, è il momento di andare a scovarli.

Lo fa, «la mattina dopo», volando a Madrid per incontrare Roberto Toscano, ex-diplomatico e editorialista: carriera interrotta da due ictus. «Guardare com’è riuscito a rimettersi in piedi è un vaccino contro la depressione». 

Sarà, poi, la volta di altri sopravvissuti alla malasorte, decisi a farcela: il nuotatore Manuel Bortuzzo, 19 anni, colpito da un proiettile vagante, una sera a Ostia. O Daniela De Blasis, medaglia d’argento ai campionati di canottaggio, che ha perso l’uso delle gambe in un incidente stradale. O Yavuz Baydar, giornalista e scrittore costretto a scappare dalla Turchia, dove ha lasciato carriera, affetti, casa. Tutto da ricostruire: ma da profugo.

In questi destini, distrutti e ricomposti, Calabresi si riconosce. Anche lui ha bisogno di punti fermi, cui aggrapparsi. A cominciare dal più semplice: la ricerca delle radici familiari, come conferma di appartenenza. Per arrivare, in un crescendo emotivo, all’incontro con Giorgio Pietrostefani: «Condannato per aver organizzato l’omicidio di mio padre», nel 1972. Con pudore, si astiene dal riferire cosa si siano detti. Osserva soltanto: «Era una cosa da fare, per mettere ordine e fare i conti il passato».

Al di là del caso di cronaca attuale, che l’ha motivato, questo libro ha il merito anche letterario: riabilita l’autobiografia, dando senso e giustificazione a un genere sempre più inflazionato. È un contagio esibizionista che non risparmia neppure la Svizzera, soppiantando un tradizionale riserbo. Un paio di settimane fa, la «Sonntagszeitung» illustrava, non senza ironia, il fenomeno «Mein Leben, mein Buch» («la mia vita, il mio libro»). Da considerare però un nuovo diritto democratico.