Buone notizie: ma chi ci crede?

/ 16.10.2017
di Luciana Caglio

«Tutto va per il meglio»: proprio così s’intitolava l’intervista con lo storico svedese Johan Norberg, pubblicata sul «Tages Anzeiger», non a caso il 25 dicembre scorso. Conteneva un messaggio su misura per la festività, che confermava la fama del personaggio, considerato «il più grande ottimista del mondo». Rivolgendosi ai lettori svizzeri, spiegava i motivi che giustificano questa rosea visione delle cose, non campata in aria, basata invece su dati di fatto inconfutabili. E li enumerava: cresce incessantemente la longevità, cala la mortalità infantile anche nel Terzo mondo, si allarga l’accesso all’istruzione e alla cultura, diminuisce la criminalità, in Europa dimezzata rispetto al 1990, si allenta anche la morsa della miseria estrema, da cui, precisava Norberg, «escono, in Africa e in Asia, cento persone ogni minuto». Per poi concludere: «Mai come oggi così tante persone sono in grado di godere i vantaggi del benessere e della libertà. Tutto ciò grazie alla scienza, alla tecnologia, all’intraprendenza individuale che, nei paesi democratici, funzionano».

Ma, proprio in questi stessi paesi, compreso il nostro, funziona anche lo spirito critico, che non ha certo risparmiato lo storico svedese. Le sue esternazioni, giudicate addirittura blasfeme, sembravano negare, persino rovesciare, convinzioni, oggi sempre più diffuse e radicate in un’opinione pubblica che tende a uno scetticismo, ormai doveroso. I cittadini si sentono sollecitati, anzi autorizzati, a non lasciarsi imbrogliare, dimostrandosi accorti e diffidenti nei confronti dei cosiddetti centri di potere, politico, economico, scientifico, culturale che siano. Con conseguenze a loro volta allarmanti.

Si sta, vistosamente, allargando il divario fra i dati forniti dall’Ufficio federale di statistica, dalla Seco, dalla Polizia cantonale, dalla Camera di commercio, persino dai sindacati, e i comuni cittadini, sempre più propensi a dubitare della veridicità di informazioni rassicuranti. È il caso, in particolare, delle cifre concernenti la disoccupazione, il dumping salariale e, non da ultimo, la criminalità. Smentite sul piano del vissuto quotidiano. Dove si respirano ben altri umori, un senso di precarietà, di disagio, di paura che sfocia nel rimpianto. Quel «si stava meglio una volta» non è più soltanto un modo di dire, ma ha alimentato una vera e propria cultura della nostalgia che, riabilitando il passato, condanna il presente e oscura il futuro. Al di là di un’evidente irrazionalità, la tendenza è contagiosa, e cresce grazie al sostegno dei media che, nella diffusione di notizie inquietanti in vista di prossime sciagure, ci sguazzano.

Ma su questo fronte si assiste, negli ultimi tempi, a un ripensamento. Si potrebbe definire la sfida dell’ottimismo. Non si propone, figurarsi, di abbellire la realtà, passando sotto silenzio guai, sofferenze, minacce, bensì di rinunciare al sensazionalismo, destinato ad appagare quell’inconfessabile curiosità, che ci cova dentro, per gli aspetti negativi della vita pubblica e privata. Precisando, però, che delitti, guerre, violenze, se fanno, ovviamente, notizia, non sono un’invenzione attuale. Anzi, una volta era peggio. È un’operazione giornalistica che vede impegnate testate importanti. A cominciare dalla «Neue Zürcher Zeitung», che ha dedicato il suo mensile di settembre alle «Buone notizie»: rompendo un tabù professionale, meritano di fare notizia. E, in queste pagine, compaiono dati che raccontano un mondo, spesso ignorato, «che va meglio, anche se non tutto va bene». Si apprende, così, che oggi su 100 bambini, 86 frequentano la scuola, mentre, nel 1820 erano 17. Sempre in quell’anno, una persona su 100 viveva in un paese democratico, oggi sono 56. E via enumerando cifre eloquenti, in cui credere.

Alla stessa esigenza ha risposto il «Corriere della Sera» che, da fine settembre, pubblica il supplemento «Buone notizie, l’impresa del bene», dedicato alle storie e alla creatività del cosiddetto Terzo settore, dove operano volontari, fondazioni, imprese sociali. Aprendo una parentesi, questo supplemento, al pari degli altri allegati a questo quotidiano, non arriva in Ticino. Ma, per concludere, non va dimenticato che il catastrofismo è diventato un’arma abilmente sfruttata da movimenti e partiti populisti, che decantano un ritorno ai bei tempi che furono.