Cara Silvia,
sono una insegnante, madre di una ragazzina di 14 anni, fino a ieri serena ma ora (l’ho scoperto troppo tardi) tormentata da un gruppetto di compagne di classe che l’hanno presa di mira approfittando di ogni occasione per isolarla, prenderla in giro, denigrarla. Lei non diceva niente ma è diventata inappetente, silenziosa, irascibile, scontenta della scuola e di se stessa.Spesso sostiene, in modo poco credibile, di aver mal di pancia e di non poter andare a scuola.Solo ora sono riuscita a farla parlare e a comprendere da che cosa deriva il suo malessere. Ma perché in epoca di emancipazione femminile accade tutto questo? E come mai le compagne non denunciano questa aggressività assurda e immotivata? La ringrazio sin d’ora della risposta che mi darà. / Lidia
Cara Lidia,
condivido il suo smarrimento di fronte a un fenomeno che contraddice il cammino che abbiamo percorso verso l’emancipazione femminile, e incrina l’amicizia e la solidarietà tra donne che in tanti ambiti abbiamo conquistato. Ma nessuna méta è mai completa e definitiva, per cui è giusto e opportuno interrogarci.
Di che cosa stiamo parlando quando diciamo «bullismo femminile?» Di un processo di omologazione che rende le ragazze simili ai ragazzi? No perché, anche se certi comportamenti sembrano gli stessi, lo stile è profondamente differente. Innanzitutto è diversa la nostra storia: da sempre gli uomini hanno gestito l’aggressività incanalandola in forme di competizione regolata: la guerra, l’agonismo sportivo, la concorrenza, persino la delinquenza organizzata. Sino a pochi decenni fa invece i rapporti tra donne sono stati limitati ai legami di parentela e vicinanza. Di conseguenza, mentre i ragazzi si relazionano tra loro seguendo un copione precostituito, alle ragazze non resta che imitarli o crearne uno proprio. Ma procedere senza mappe non è mai facile.
Soprattutto nella pubertà può accadere che la più prepotente s’imponga e scelga con acume una vittima da respingere, isolare e perseguitare con insinuazioni e calunnie. Intorno a lei si crea un gruppo di spettatrici che, pur rendendosi conto di assistere ad azioni malvagie, si rassicura dicendo: «meno male che non capita a me!», un atteggiamento di omertà che diventa spesso complicità. Mentre i maschi impongono il loro potere colpendo soprattutto il fisico, le femmine utilizzano piuttosto la parola. Col risultato che mentre i lividi del corpo sono evidenti e curabili, quelli dell’anima sono invisibili e indelebili.
Non a caso, ma seguendo le suggestioni dei mass-media, le bulle prendono di mira soprattutto gli inestetismi, come essere sovrappeso, avere i capelli unti, i foruncoli, vestirsi «come vuole la mamma». Ma è a rischio anche primeggiare, come accade alla «secchiona» o alla preferita dall’insegnante, spesso isolate e derise.
La difficoltà, propria dell’età, di delineare un’identità femminile, sollecita la prepotente a proiettare su una compagna più debole le parti inaccettabili di sé sino a farne un alter-ego negativo da emarginare e cancellare. Non solo il coro che assiste a questi soprusi si chiude in un mutismo omertoso, che diviene spesso complicità, persino la vittima tace, sino a convincersi che in lei qualcosa non va. La perdita dell’autostima è una delle conseguenze più preoccupanti del bullismo sistematico e prolungato. In questi anni il danno è poi aggravato dalla possibilità di utilizzare la Rete per divulgare all’infinito, protetti dall’anonimato, le proprie bravate. Mentre la bulla sente il bisogno di riscuotere il più vasto consenso, una folla d’ignoti corrispondenti s’immedesima con lei infierendo sulla vittima con le peggiori ingiurie. Spesso queste dinamiche sfuggono all’attenzione dei genitori e al controllo degli insegnanti, che dovrebbero invece comunicare e collaborare tra di loro.
Poiché ogni condotta asociale messa in atto dagli adolescenti esprime una richiesta di aiuto, occorre innanzitutto affinare la nostra sensibilità per decifrare sintomi quali l’iperconnessione, l’isolamento, disturbi psicosomatici come l’insonnia e l’inappetenza. Senza ammetterlo, vittime e carnefici chiedono il nostro intervento per superare il conflitto interno che genera quello esterno e far pace con se stessi.
Non è facile, ma per aiutarli davvero dobbiamo convincerli ad abbandonare i circuiti della violenza e indurli a uscire dal mondo virtuale per costruire, in quello reale, il futuro che le attende.