Lo sci ha un futuro? No. Punto.
La rubrica di questa settimana potrebbe finire qui, lasciando in bianco il resto dello spazio. Ma prima vorrei dare voce a un rimpianto. Gli sport invernali hanno scritto un bel pezzo della loro storia qui da noi (oltre che in Austria, Italia e Francia, si capisce). La data d’inizio dello sci in Svizzera si fa risalire al settembre 1864, a St. Moritz, con la celebre scommessa tra l’albergatore Johannes Badrutt e alcuni turisti inglesi, quando ancora per le vacanze si veniva d’estate: se fossero tornati d’inverno, e fossero rimasti delusi, i suoi clienti non avrebbero pagato nulla. Naturalmente gli ospiti furono invece entusiasti (e pagarono), anche se il turismo invernale decollò solo nel periodo tra le due guerre, quando gli americani «inventarono» l’estate al mare sulla Costa azzurra, «rubando» agli svizzeri la loro stagione migliore e costringendoli a ripensare l’inverno. La storia dello sci è breve dunque (meno di un secolo) ma indimenticabile. Ora siamo ai titoli di coda e nessuno concede più di mezzo secolo ancora di lenta agonia (solo quaranta anni secondo Luca Mercalli).
Se la tendenza è inequivocabile ci sono tuttavia molte altre domande in sospeso che richiedono una risposta. Per esempio dovremmo aiutare le stazioni invernali in difficoltà, per sostenere l’economia locale? E possiamo immaginare un diverso modello di sviluppo per questi territori? Naturalmente ogni stazione è un caso a sé, ma alcune riflessioni generali sono ampiamente condivise.
Il cambiamento climatico è rapido e impressionante. E in montagna ancora di più: due gradi a livello mondiale diventano quattro sulle Alpi. Se negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso si sciava anche d’estate sui ghiacciai, oggi neanche le stazioni ad alta quota sono al sicuro. Le ultime Olimpiadi invernali a Pechino si sono svolte interamente su neve artificiale (non era mai successo); stessa situazione per la Coppa del mondo di sci ad Adelboden. Certo l’innevamento artificiale può aiutare a colmare qualche lacuna, ma non è la soluzione del problema. Se fa troppo caldo la neve si scioglie subito e comunque per produrla serve acqua, che viene presto a mancare se non nevica a sufficienza l’anno prima: un classico circolo vizioso. Qualche buona nevicata di tanto in tanto poi non cambia nulla, anzi è peggio, perché suscita illusioni e ritarda il necessario cambiamento.
Lo sci sarà sempre più uno sport per ricchi. Chi lo dice a Karl Marx che la lotta di classe si è spostata sulle piste innevate? Negli ultimi anni si è scatenata la tempesta perfetta: prima la pandemia, poi la siccità e infine l’aumento del costo dell’energia. I costi per la manutenzione delle piste sono cresciuti parecchio e oltretutto bisogna ammortizzare in qualche modo i giorni sempre più numerosi senza neve: inevitabile il rincaro degli skipass, al di là di occasionali promozioni. Infine i laboratori di ricerca propongono materiali di qualità straordinaria, dalle tute agli scarponi agli sci, ma anche qui a costi crescenti. Già ora per una settimana bianca una famiglia deve impegnare cifre impressionanti. E non a caso in Svizzera si registra un calo del numero di sciatori del venti per cento in soli dieci anni.
Scordiamoci il passato. Intorno allo sci per decenni è cresciuta tutta un’economia, con un indotto importante (alberghi e ristoranti, maestri di sci, negozi eccetera). Lo stesso mercato immobiliare delle abitazioni secondarie ne è stato plasmato. Ora la montagna dovrà inventarsi un futuro dove la neve, anche d’inverno, è solo un elemento tra i tanti, insieme a escursionismo, mountain bike, turismo culturale e gastronomico. Naturalmente quando e dove si potrà si continuerà a sciare, magari con qualche sostegno mirato agli impianti, ma investimenti su scala maggiore sarebbero uno spreco (non parliamo di idee stravaganti come Cortina 2026).
La montagna cercherà di attrarre nuovi abitanti: lavoratori da remoto e nomadi digitali, giovani famiglie e pensionati in fuga dalle città, artigiani. E tuttavia meglio non farsi illusioni; al massimo si potranno limitare i danni. Per molte località comincia un tempo di perdita, di declino, una traversata del deserto verso una meta incerta e avvolta nelle nebbie. Ma lamentarsi serve a poco, quando c’è così tanto da fare.