Pochi giorni fa, nei quotidiani ticinesi, appariva una notizia: per proteggere le vittime di violenze domestiche la magistratura potrà imporre ai potenziali aggressori l’obbligo di indossare un braccialetto elettronico; ossia, la persona che ha commesso atti di violenza domestica ed è diffidata dall’avvicinarsi al coniuge potrà sempre essere localizzata, grazie al congegno elettronico, così che le forze dell’ordine possano intervenire tempestivamente quando si verifichi una trasgressione del divieto.
Due cose mi vengono in mente: la prima è un curioso rovesciamento di significati simbolici. Il braccialetto, per secoli, è stato un simbolo d’unione che l’amante donava all’amata prima dell’anello di fidanzamento. Come la collana, anche il bracciale evoca l’idea di una catena, un legame simbolico che congiunge l’uno con l’altra. Adesso, il braccialetto diventa invece lo strumento tecnologico che sancisce una separazione.
La seconda riflessione riguarda invece il persistere – o addirittura la progressione – delle violenze domestiche. Sembra del tutto assurdo che comportamenti di aggressiva prepotenza, condannati dai codici morali e civili del nostro tempo, non solo non scompaiano, ma facciano anzi registrare una costante persistenza statistica. Nel maggio del 1997 i media ticinesi, dando ampio spazio al fenomeno della violenza sulle donne nel rapporto di coppia, riferivano che una donna su 5 ha subito violenza fisica; una su due, violenza psichica. Nel 2000, uno studio cantonale segnalava ancora, in Ticino, oltre duemila casi di violenza domestica registrati dalle varie associazioni e dai servizi specifici.
È pur vero che di questi dati statistici sono possibili interpretazioni diverse. Può essere, ad esempio, che le violenze in seno alla famiglia, verbali o di fatto, siano davvero cresciute; ma è anche possibile che sia cresciuto solo il numero delle denunce, perché donne, fanciulli, e anche uomini adulti, sono oggi più disposti a ricorrere a questo strumento di difesa giuridica. O ancora: è possibile che l’aumento dei casi sia dovuto all’aumento del numero di immigrati la cui cultura sancisce ancora il netto predominio del maschio sulla femmina, e che quindi non fanno che continuare ad applicare qui quello che hanno imparato altrove. È possibile, ma non è affatto detto: uno studio condotto sulla situazione europea nel 2004, poneva in cima alla graduatoria per atti di violenza sulle donne la Romania, ma subito dopo venivano Paesi in cui i diritti delle donne sono più ampiamente riconosciuti: la Finlandia, la Norvegia, il Lussemburgo, la Danimarca e la Svezia.
È comunque difficile staccarsi da costumi e da tradizioni millenarie. Da giovane, non di rado mi capitava di sentire il detto popolare «Chi dice donna, dice danno»: detto che riassumeva una misoginia antichissima, attestata con evidenza nell’Antico Testamento e poi riconfermata per secoli e secoli. Un solo esempio: nel Principe di Machiavelli si legge questo consiglio: «la fortuna è donna, ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla». Dunque: tipico del carattere femminile è l’insubordinazione, il capriccio (la fortuna, appunto, è detta «capricciosa»), difetti ai quali Machiavelli suggerisce di porre rimedio con un po’ di botte. È una conferma della tradizionale convinzione maschile che la donna debba essere sottomessa all’uomo – una sottomissione che è sancita anche dalla condanna divina nella Genesi (3, 16): «verso tuo marito ti spingerà il tuo desiderio, ed egli dominerà su di te».
Questa volontà di dominio sulla donna – profondamente radicata nella mentalità maschile – si è manifestata nel corso della storia e nelle varie culture in forme diverse – da quella della patria potestas e del matrimonio come contratto di compravendita, fino all’infibulazione (in uso già nell’antico Egitto) e ad altre menomazioni dei genitali femminili, così da garantirne al marito l’esclusiva proprietà. L’ostinata persistenza di questa volontà di dominio ha avuto interpretazioni e analisi disparate sfociate in centinaia, o forse migliaia, di studi e di teorie. Ne ho letti non pochi, e mi pare che non ci sia un’unica spiegazione certa, ma piuttosto un ampio ventaglio di spiegazioni tutte in vario modo plausibili. Certo è, invece, che il progresso morale – che pure indubbiamente è avvenuto – è lento e non è al riparo da ricadute; e il cammino per prendere le distanze dalle nostre lontane origini animali e da radici culturali millenarie è lungo e tortuoso.