Boris Johnson, la multa e la guerra

/ 18.04.2022
di Paola Peduzzi

Il «partygate» è uno scandalo vischioso che resta appiccicato alla leadership britannica anche quando questa fa di tutto per scrollarselo di dosso. Lo scandalo riguarda le feste che il premier Boris Johnson ha organizzato nella sua residenza a Downing Street durante il lockdown anti-Covid, quando gli assembramenti erano vietati. La scorsa settimana sono arrivate le multe, che potrebbero essere soltanto l’inizio della resa dei conti dentro le istituzioni, ma che intanto conservano un altro misero primato: è la prima volta che un premier in carica riceve una sanzione di questo tipo. Il problema non è tanto la multa in sé, che è stata prontamente pagata con molte scuse pubbliche, sia da parte di Johnson e di sua moglie Carrie, sia da parte del cancelliere dello Scacchiere, Rishi Sunak. Il problema sono le bugie.

Il premier aveva inizialmente negato che quelle feste ci fossero state. È stato smentito dalle foto che testimoniavano non una, ma parecchie feste. Poi ha cambiato versione sul proprio coinvolgimento: prima ha dichiarato che non ne era al corrente, poi ha ammesso di sapere delle feste (avendoci partecipato era difficile sostenere il contrario), infine ha affermato che non sapeva di essere in violazione delle regole (misure che erano state introdotte dal suo stesso governo). Buona parte di queste dichiarazioni è stata fatta in Parlamento, quindi il premier ha mentito davanti ai Comuni, cosa che non solo è politicamente sbagliata (sulla morale non ci esprimiamo), ma è a sua volta una violazione delle regole di condotta istituzionali, nonché una buona ragione per chiedere le dimissioni del premier e anche del cancelliere dello Scacchiere.

Infatti tutta l’opposizione sta chiedendo a Johnson di andarsene. La multa ha cancellato il consenso che il premier ha conquistato con la sua gestione della guerra. Ed è un peccato, perché la guida britannica in questa fase potrebbe essere decisiva nel tenere compatto e determinato il fronte occidentale contro la Russia. Londra aveva iniziato ancora prima dell’invasione in Ucraina a inviare armi e ha continuato a farlo (in proporzione spende di più di tutta l’Ue nel sostegno all’offensiva ucraina), così come si è occupata negli ultimi anni di contribuire alla formazione «occidentale» dell’esercito di Kiev, cose che si sono rivelate fondamentali nel governare la dinamica di questa prima fase di guerra. Johnson si è intestato la battaglia per dare tutti gli strumenti militari necessari all’Ucraina – comprese le armi letali, compresa l’idea di creare basi permanenti ai confini ucraini che potrebbero entrare in azione rapidamente – in contrasto con molti colleghi che sul riarmo, come i tedeschi, si tormentano parecchio e si impantanano. Ma si è anche intestato la battaglia valoriale: molti dicono che Johnson ambisce a essere il Churchill del momento e per questo viene considerato un po’ mitomane. Non sarà Churchill – i paragoni storici in questo periodo sono molto delicati – ma certo dice le parole giuste. Ricorda che la guerra in Ucraina è una guerra contro la libertà, fa dire ai suoi ministri che il fronte delle democrazie va difeso con tutti i mezzi che si hanno a disposizione e Ben Wallace, capo del Dicastero della difesa, ribadisce: Putin è forte sì, ma noi siamo tanti, lui è solo. E questa solitudine, alla lunga, può fare tutta la differenza del mondo.

Lo slancio inglese nella gestione della guerra dal punto di vista internazionale è potente e indispensabile. Questo fa dire anche agli europei, che pure sono ancora offesi e feriti dalla Brexit, che non si può fare a meno della leadership di Johnson, come lo dice anche il presidente ucraino, Volodymir Zelensky, che ha passeggiato con il premier inglese nel centro di Kiev e ha dichiarato che è quello il volto della democrazia e delle alleanze salvifiche. Molti inglesi invece osservano che questo è il loro spirito. Johnson lo incarna bene, ma anche un altro leader lo farebbe, e magari non avrebbe i difetti del premier, in primo luogo la tendenza a raccontare bugie. Quindi se lui si dimette non cambierebbe nulla per quel che riguarda la guerra. I Tory, che sono il partito del premier e hanno una maggioranza ampia ai Comuni, non ne sono così convinti: è dall’inizio del «partygate», ormai cinque mesi fa, che sono divisi e indecisi. Lavorano a una congiura di palazzo ma ne temono gli effetti. Probabilmente aspetteranno le elezioni suppletive previste per maggio per vedere come va davvero il consenso del premier. E forse, ancora una volta, perderanno l’attimo e Johnson continuerà a fare la guerra.