Bisogna decidere da che parte stare

/ 14.03.2022
di Aldo Cazzullo

C’è in Europa, soprattutto in Italia, un giustificazionismo eccessivo attorno all’autocrate russo. Putin attacca uno Stato sovrano, ma è stato provocato; la colpa è dell’Europa. Putin fa strage di civili ucraini, ma è stato costretto; la colpa è dell’America. Putin minaccia la guerra nucleare, ma è stato indotto; la colpa è della Nato. Nato è la parola-chiave. «Fuori l’Italia dalla Nato!», scandivano i cortei rossi come quelli neri negli anni 70. E anche oggi il concetto salda i duri e puri di sinistra con la destra sovranista. La guerra di Putin uccide ogni giorno vecchi, donne, bambini, ma noi europei filosofeggiamo poiché non esistono il torto e la ragione, il bianco e il nero. Esiste solo il grigio, in cui tutto può essere giustificato. Ma non è con la filosofia che si fermano le guerre. Spesso sono gli stessi del «no al green pass». «Io non sono contro i vaccini, però…». «Io sono contro Putin, però…». Sono quelli del «però». Com’è ovvio, il green pass e Putin non c’entrano nulla. Ma la logica è la stessa: noi siamo quelli che cantano fuori dal coro.

Intendiamoci: il pensiero critico è il segno della superiorità della democrazia sull’autocrazia. Va esercitato in ogni circostanza, anche in guerra. A maggior ragione in una guerra difficile da decifrare, in cui si combatte come sempre un conflitto di falsi numeri e false notizie. La Nato era considerata superata sia da Trump, che la voleva far pagare agli europei, sia dallo stesso Macron. Per qualcuno si è allargata troppo verso est, per altri troppo poco. In una democrazia si discute e chi la pensa diversamente va contraddetto ma rispettato. Però viene un momento in cui bisogna decidere da quale parte stare. I generici appelli alla pace sono condivisibili ma non bastano. Qui ci sono un aggressore e un aggredito. C’è un paese di oltre 17 milioni di chilometri quadrati, il più vasto al mondo, che vuole annettersi regioni di (o magari tutto) un Paese 28 volte più piccolo. La parte dell’Europa non può che essere quella dei milioni di ucraini che stanno soffrendo e delle migliaia di russi che mettono in gioco i loro corpi e la loro vita per fermare la guerra. La nostra parte non può che essere quella della libertà e della democrazia. È retorica? No, è carne e sangue.

Com’è ovvio, essere russo non è una colpa. Nessuno chiede a un russo di vergognarsi di essere russo e se lo chiedesse sbaglierebbe. È legittimo invece domandare a un sostenitore di Putin, che lavora con istituzioni pubbliche europee finanziate anche con soldi pubblici, di prendere le distanze dalla strage degli ucraini. Essere contro Putin non significa essere contro la Russia, ma contro il regime. Putin ha molti amici nel mondo. Ha comprato politici, pezzi di partiti, partiti interi. Eppure non era impossibile capire chi fosse, anche prima dell’inaudita aggressione all’Ucraina. È l’uomo dei massacri in Cecenia, della strage dei bambini di Beslan, dell’attacco all’esercito georgiano, dell’intervento nelle sanguinose guerre civili in Siria e in Libia. È l’uomo dell’avvelenamento dei nemici, dell’incarcerazione degli oppositori. Ora ha fatto altri passi, spingendosi là dove neppure Stalin si era spinto: minacciare un conflitto nucleare.

Durante la guerra fredda le minacce si facevano a bassa voce, non in pubblico. Nel 1973, quando gli israeliani, rintuzzato l’attacco egiziano, marciarono oltre il Canale di Suez, i sovietici fecero sapere agli americani: fermateli o usiamo l’atomica. Qualche ora prima, quando i siriani avevano sfondato sul Golan, Golda Meir (lo racconta Benny Morris in Vittime) pensò all’uso dell’arma nucleare tattica, ma Ariel Sharon la fermò: «Aspetta, i nostri uomini possono ancora resistere». I carristi israeliani resistettero. L’atomica insomma era un tabù, anche tra due blocchi che avrebbero potuto distruggersi a vicenda, anche tra popoli che combattevano per la vita e per la morte. A quale livello di barbarie siamo arrivati se persino questo tabù viene infranto?

La Russia militarmente è più forte. Ma Putin si muove secondo vecchi schemi: provocazione di confine, invasione, occupazione. L’Occidente si muove secondo schemi del ventunesimo secolo: sanzioni finanziarie e propaganda social. Non c’è dubbio che la battaglia della comunicazione la stia vincendo Zelensky. L’opinione pubblica occidentale empatizza con il presidente ucraino. E, se non è disposta a imbracciare le armi per Kiev, non per questo è disposta a dare ragione all’autocrate russo.