A proposito di centenari: tutti parlano di Pier Paolo Pasolini sulla cui opera è fiorita negli anni una produzione critica che non ha il pari con quella relativa a nessun altro scrittore del Novecento italiano. Pochi, però, parlano di quello che si sta affermando come il più singolare scrittore italiano del Novecento: Beppe Fenoglio. Una questione privata è uno dei suoi più grandiosi romanzi d’amore, quando l’amore recava sofferenza e non discorsi sull’amore. In Fenoglio tutto è postumo: il successo, il risarcimento, i sensi di colpa della critica. Strano destino il suo: da vivo, ha faticato come una bestia per pubblicare i libri, per superare le diffidenze dell’establishment, per vedersi riconosciuto come scrittore; da morto ci viene incontro con tratto monumentale.
Fenoglio nasce ad Alba nel 1922, figlio di un macellaio, frequenta il liceo classico solo perché un maestro elementare ne intuisce le doti e convince la madre a «farlo studiare». Ha una grande passione per la letteratura, la poesia, il teatro, il cinema; si butta su autori di lingua inglese, li traduce, li assimila in un suo mondo immaginario che ha però i contorni delle Langhe. Arriva la guerra, deve interrompere gli studi, viene arruolato nel regio esercito come allievo ufficiale, partecipa alla Resistenza, torna alla vita civile con il sogno di diventare scrittore ma nel disincanto del dopoguerra trova lavoro solo come procuratore in una ditta che vende vermouth e spumanti. Finalmente nel 1952 pubblica da Einaudi I ventitré giorni della città di Alba nella collona I gettoni con un risvolto di Elio Vittorini che, ambiguamente, ne decanta le lodi: «Un gusto barbarico che persiste come gusto di vita non solo nel costume del retroterra piemontese». Ma subito arriva la prima fucilata, anonima, su «l’Unità» di Milano diretta da Davide Lajolo e autore dell’articolo: «Beppe Fenoglio, dice una nota di presentazione sulla copertina del libro, esercita ad Alba il mestiere di procuratore presso una ditta vinicola. Noi non sappiamo se questo mestiere egli lo esercita onestamente, oppure vende del vino annacquato. Certo è che in fatto di racconti non possiamo parlare di onestà: e questo libro lo dimostra… Pubblicare e diffondere questo tipo di letteratura significa non soltanto falsare la realtà, significa sovvertire i valori umani e distruggere quel senso di dirittura e onestà morale di cui la tradizione letteraria può farsi vanto». Sta di fatto che quando Vittorini gli pubblica nel 1954 La malora accompagna il libro con una nota insolitamente dura e ingenerosa, dove Fenoglio viene accomunato ai «provinciali del naturalismo… col modo artificiosamente spigliato in cui si esprimevano a furia di afrodisiaci dialettali».
«È sufficiente rileggere le sue pagine, scrive Nunzia Palmieri su «Doppiozero» …, per comprendere come la sua ricerca andasse nella direzione di una scrittura che fosse in grado di ancorarsi al mondo allontanandosi dalle prospettive consuete di rappresentazione… C’è un animismo di fondo che attraversa le sue pagine e le plasma attraverso una scrittura materica, sempre fuori chiave rispetto agli orizzonti di attesa dei suoi primi critici-lettori, che non riescono a collocarla in nessuna delle categorie acquisite, con abbagli e fraintendimenti che Fenoglio sente per tutta la vita come una ferita aperta». Quando Una questione privata esce postuma, Italo Calvino rompe la diffidenza che fino ad allora aveva caratterizzato i rapporti con Fenoglio (dell’editore Giulio Einaudi ma anche un po’ di Livio Garzanti) e con grande onestà ammette: «Il libro che la nostra generazione voleva fare, adesso c’è e il nostro lavoro ha un coronamento e un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita».
Calvino riconosceva allo scrittore langarolo il merito di essere riuscito «a fare il romanzo che tutti avevamo sognato, quando nessuno più se l’aspettava». Scomparso prematuramente, per un lungo periodo i suoi libri sono stati sorvegliati da certe ziette della critica accademica con i pesanti maglioni di lana della filologia, le pancere delle varianti e delle note in margine. E pochi a urlare che Fenoglio è soltanto un grande scrittore. Finalmente ora si comincia a dar conto del suo duro viaggio stilistico dentro la lingua per approdare a un italiano acuminato, scarnificato, essenziale, eppur ebbro di «ribollente maestà» (Guido Beccaria).