Gli anniversari, ormai troppi e spesso destinati a celebrazioni superflue, hanno tuttavia un merito: quando concernono grandi scrittori, inducono a rileggerne le pagine, sotto una nuova luce, che consente di scoprire la loro persistente attualità. È il caso, adesso, di Charles Dickens a 150 dalla morte, il 9 giugno 1870, rievocato da Peter Ackroyd, in una biografia che è, a sua volta, un portentoso romanzo. Di cui è apparsa, recentemente, la traduzione italiana (Neri Pozza editore). Si deve parlare del fortunato incontro fra due talenti: un narratore del XIX secolo e uno storico contemporaneo, fra i quali s’instaura una sorta di complicità. Descrivendo la personalità contraddittoria, di un romanziere teatrale, ambizioso, persino avido di soldi e successo, il biografo ne rivela un aspetto che ce l’avvicina: la sensibilità nei confronti dell’infanzia. Sarà una presenza centrale, sia nell’opera letteraria sia nel vissuto quotidiano di Dickens. Dal canto suo, Ackroyd la percepisce in chiave moderna, sottolineando quello che oggi si chiama impegno sociale a favore dei più deboli, di cui il romanziere fu, a modo suo, un anticipatore. Il bambino vittima, quasi predestinata, di sfruttamento, sofferenze fisiche e morali, esposto al rischio di malattie e morti precoci è qualcosa che Dickens vide intorno a sé e sperimentò personalmente.
Dodicenne, per via del padre debitore cronico fu tolto dalla scuola e mandato a lavorare in una fabbrica di lucido da scarpe, a 5 chilometri da casa, per 6 scellini la settimana. Da quest’infanzia interrotta che apparteneva, salvo poche eccezioni privilegiate, alla normalità, Dickens riuscì a ricavare gli stimoli della rivalsa: mobilitando le sue risorse di fantasia e intraprendenza. Tuttavia, quest’esperienza l’aveva profondamente segnato e si tradusse, nel corso degli anni, in un’incessante attenzione per la condizione dei bambini, fonte d’ispirazione letteraria e di denuncia giornalistica e politica.
Nella Londra dell’era vittoriana, che esibiva con orgoglio le conquiste della tecnica e dell’industria, l’infanzia rappresentava una sorta di isola infelice. Proprio i ragazzini subirono le conseguenze deteriori dello sviluppo economico, sfruttati come manodopera sottopagata nelle fabbriche, costretti a respirare l’aria inquinata dalle ciminiere e, nelle scuole, a subire un insegnamento a suon di bacchettate e punizioni.
Nel gennaio 1838, un annuncio pubblicitario, con cui un istituto privato nello Yorkshire vantava la prerogativa «qui niente vacanze», incuriosì il Dickens cronista. Si recò sul posto, dove scoprì una situazione mostruosa: convittori picchiati, denutriti, persino accecati, con effetti fatali. Spesso morivano, e lo confermavano le tante tombe nel cimitero, visitato da Dickens: deciso, sono sue parole, «a sferrare il mio colpo più violento a favore di queste creature svantaggiate». Del resto anche a Londra, la metà dei funerali concerneva «persone al di sotto dei 10 anni».
A contatto diretto con i minorenni nei cotonifici di Manchester e con le ragazzine nei bordelli londinesi, lo scrittore, accumulava un materiale prezioso, da sfruttare, sia da romanziere sia da giornalista e politico, sostenendo movimenti riformisti, come l’iniziativa delle «10 ore lavorative», promossa da Lord Ashley. Forte della sua popolarità, non risparmiava nessuno, neppure la curia. Lui, credente, denuncia il «baby farming», praticato dalle parrocchie responsabili di maltrattamenti sui bambini affidati alle loro cure. Questa vena polemica l’accompagna fin negli ultimi anni, nella precoce vecchiaia di quei tempi, appena dopo i 40.
E, infine, il ricordo delle sofferenze subite nell’infanzia si fa ossessivo e, fra i suoi fantasmi, compare la figura del bambino strambo, in cui si identifica.
Difficile, da questa lettura, ricavare riferimenti con la nostra realtà, nell’era di un’infanzia al riparo da sofferenze, sfruttamenti, rigori educativi, favorita da un diffuso permissivismo. Con ciò, i giovanissimi si trovano ad affrontare altri disagi: da figli di genitori separati, da emigrati in una nuova patria poco accogliente, da piccoli consumatori esposti alle infinite tentazioni di un commercio, rivolto a loro. Anche le nostre cronache documentano i sintomi di un’infanzia sempre fragile, a dispetto delle apparenze.