Autolesionisti per dispetto

/ 01.08.2022
di Orazio Martinetti

Non è facile misurare la temperatura della coscienza nazionale di un paese; non c’è un’ascella sotto la quale infilare il termometro e da qui stabilire il grado di patriottismo su una scala che inevitabilmente varia nel tempo. Di solito non si va oltre la cronaca, cercando di cogliere gli umori che gli esponenti politici trasmettono nelle varie regioni del paese nel giorno del Natale della Patria. Esistono però altri approcci, meno soggettivi e più legati al numero, ovvero alle indagini statistiche e ai sondaggi su temi specifici. Da segnalare, in proposito, un articolo uscito sul periodico «Dati» edito dall’Ufficio di statistica (Ustat), firmato da Mauro Stanga. Titolo: Il Cantone Ticino nel contesto svizzero. L’autore ha focalizzato la sua attenzione su alcuni snodi significativi delle relazioni interne, quali la mobilità, la presenza ticinese nel governo centrale, le difformità di voto del cantone rispetto all’esito globale, la situazione del mercato del lavoro (la sfera senz’altro più «esplosiva»), la visione salutistica dei cittadini, con infine un accenno sulle incomprensioni sorte tra Bellinzona e Berna sul modo di affrontare l’emergenza pandemica.

Sappiamo quanto sia delicata l’impalcatura federalistica elvetica. In genere appare solida e «resiliente», ovvero capace di assorbire le sconfessioni popolari senza mai sfasciarsi; è la sua forza, derivata dall’esperienza maturata nei secoli. A volte però s’incrina: succede quando affiorano fessurazioni interne che non sono estemporanee ma espressione di un’indole diversa, che non si piega all’omologazione. Si parla allora di «Röstigraben» tra cantoni alemanni e Romandia, e anche, ma meno frequentemente, di «Polentagraben», fra Svizzera tedesca e Ticino. In proposito Stanga osserva, percentuali alla mano, che il nostro cantone non è più quel figlio che fa tribolare («Schmerzenskind») tanto evocato in passato dalla pubblicistica d’oltralpe otto-novecentesca. Certo, alcuni casi destarono clamore, come quando il popolo fu chiamato alle urne per decidere l’obbligatorietà delle cinture di sicurezza (30 novembre 1980). In quell’occasione ben l’82% dei votanti ticinesi disse no all’obbligo (mentre a livello nazionale la misura fu approvata dal 51,6%). L’indignazione, a sud delle Alpi, fu quasi unanime. L’«Eco di Locarno» così commentò quell’infelice esito: «L’obbligo di allacciare le cinture di sicurezza per chi circola in automobile e anche l’obbligo di portare il casco per chi circola con veicoli a motore a due ruote è dunque stato imposto dagli svizzero-tedeschi ai romandi e ai ticinesi. Evviva la democrazia. Evviva anche lo Stato-balia, che si sente in dovere di proteggere il cittadino (evidentemente incapace di pensare a se stesso) a costo di limitare la sua libertà personale». «Dittatura della maggioranza», avrebbe detto Tocqueville; ma più prosaicamente queste erano le regole del gioco di un sistema che non ammetteva eccezioni (di fatto la «disobbedienza civile» dei latini si protrasse per alcuni anni, in parte tollerata dalle autorità di polizia). Indirettamente la votazione riportava in superficie antichi e radicati pregiudizi, quali lo spirito anarchico degli ex-sudditi, la loro passione per i motori, la loro innata indisciplina.

La ricerca di Stanga mostra che negli ultimi decenni questa «diversità» è venuta meno. Il Ticino si è ammansito, accodandosi viepiù alle frange più conservatrici della Svizzera tedesca controllate dall’Udc. Tale svolta è stata indotta, come noto, dall’instabilità del suo mercato del lavoro e da un’economia che non riesce ancora a rientrare negli standard nazionali in fatto di salari e produttività. Di qui il riflesso anti-europeo e in parte anti-italiano che soprattutto la Lega ha saputo coltivare, agganciandolo a una sempre efficace campagna contro l’élite cosmopolita e contro l’orso bernese.

Questa indubbia integrazione nell’orbita politica, economica e anche formativa (università e ricerca) elvetica non ha tuttavia messo a tacere il regionalismo rivendicativo, che come sappiamo ha alle spalle una lunga storia. Sennonché non tutte le sollecitazioni si sono rivelate legittime e coerenti con lo status di minoranza italofona; anzi, l’ultima in ordine di tempo, incentrata sul taglio del canone radiotelevisivo a duecento franchi annui, non si può definire che autolesionistica, sostenuta dalla destra solo perché la Rsi è considerata «rossa». Bene, diranno a Berna, se voi stessi ritenete di ridurre le sovvenzioni, sarete serviti. E non sognatevi, in futuro, di chiederci altro per rivitalizzare il vostro tessuto economico.