Attualità del reporter

/ 07.03.2022
di Luciana Caglio

Cambiano i luoghi, le situazioni, le cause ma a mobilitarlo è sempre un’emergenza, comune denominatore del reporter, entrato adesso nella nostra quotidianità di cittadini smarriti, in cerca di punti fermi. Per definizione, gli spetta il ruolo di riferire ciò di cui è spettatore sul campo, da diretto testimone, per forza di cose attendibile. Del resto, è il continuatore di una costante storica. Richiama, nella memoria dei ginnasiali di un tempo, Giulio Cesare che, nel De bello gallico, libro di testo per i latinisti, anticipò l’inviato speciale di oggi: raccontando ai suoi contemporanei l’esperienza della guerra vissuta personalmente.

Certo, nell’era della comunicazione globale, il compito d’informare ha creato una folta schiera di addetti ai lavori, più o meno capaci, a volte improvvisati. Comunque necessari per soddisfare le esigenze di un pubblico che vuol saperne di più, proprio nei confronti di una guerra che ci tocca da vicino, con ricadute imponderabili. La benzina a 2 franchi, il Consiglio Federale che, sfidando la neutralità, condanna l’intervento armato in Ucraina ne sono indizi giustamente allarmanti.

Da qui, quotidiani che vanno a ruba, televisori e radio accesi, telefonini di continuo consultati, dove conduttori, commentatori, specialisti dell’ultima ora tengono banco sfoggiando conoscenze e competenze inattese. Come osservava, da maestro di una garbata ironia, Aldo Grasso, dopo l’ondata dei virologi, insomma della scienza spiegata al popolo, è la volta degli storici e strateghi, per la politica alla portata di tutti.

Con ciò il reporter autentico si muove su un altro piano, quello insostituibile dei contatti umani. Con la sua presenza sul posto, ci trasmette le immagini, i rumori, le voci, le ansie, le incognite di un’emergenza da condividere, in diretta. Come fossimo nella Kiev bombardata, fra le gente che si rifugia nei sotterranei della metropolitana, negli scantinati o nelle auto, cariche di beni di prima necessità, in coda su strade, verso un’illusoria salvezza. Niente chiacchiere né dissertazioni culturali, bensì l’esercizio di un mestiere chiamato a documentare la realtà, così com’è. Un dovere professionale che può comportare rischi. Tanto da esserne, loro stessi le vittime. Non è una forzatura retorica, parlare di eroismo. Ogni anno, decine, persino centinaia di reporter ci lasciano la pelle.

A Londra, inesauribile fonte di sorprese, c’è anche la chiesa cosiddetta dei giornalisti. Si chiama St Bride’s Church, innalza il campanile a freccia, in Fleet Street, un tempo sede delle redazioni dei maggiori quotidiani, poi emigrati nei grattacieli della periferia. Qui in un edificio antico e ristrutturato, circondato da un giardino, dedicato espressamente alla meditazione, si celebra la memoria dovuta a chi ha vissuto il lavoro alla stregua di una vocazione. Sotto queste volte, si sono commemorati reporter della BBC e di quotidiani caduti nei conflitti in Croazia, in Cosovo, in Pakistan o uccisi da terroristi. Un elenco sempre aperto.

Tuttavia, sacrifici e pericoli a parte, la professione reporter (che fu anche il titolo di un film di Antonioni) conserva un potere d’attrazione sempre seducente. Nata a New York, nel 1883, nella redazione del «Sun», ha alimentato sia ambizioni fasulle sia, d’altro canto, talenti autentici. Diventando una palestra in cui si esercitarono i cultori di un nuovo genere giornalistico e persino letterario. Basti pensare a Hemingway, inviato speciale durante la guerra di Spagna. In Italia, precursore di un genere che abbinava spirito d’osservazione e avventura, fu Luigi Barzini, autore di un best seller dell’epoca: Parigi Pechino in 60 giorni, pubblicato nel 1908.

Anche Montanelli si cimentò in questo filone, con risultati discutibili in quanto a credibilità, durante la conquista italiana dell’Etiopia, negli anni 30. A sua volta, Oriana Fallaci, giornalista e scrittrice di alto respiro, ottenne ammirazione, fama e critiche persino velenose. «Io e la luna»: commentarono maliziosamente i suoi colleghi. Insomma, più di altri mestieri, quello del reporter comporta contraddizioni estreme: il fascino di una meritata notorietà e la trappola dell’autocompiacimento. In proposito, se la sta cavando bene un reporter di casa nostra, Gianluca Grossi che, dal Medio Oriente, invia impeccabili corrispondenze. Non è merito da poco, muoversi in quel ginepraio.